Il sufismo, cuore dell'Islam

27 Settembre 2014
Marta Franceschini
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Chi è il peggiore degli uomini? Colui che si crede il migliore.

Si parla molto di Islam, ultimamente, sui giornali, nei talk show, sui social forum, e purtroppo le notizie non sono buone. Sedicenti “califfi” minacciano violenze, stupri, torture, fanno migliaia di vittime, sgozzano innocenti in diretta in nome di Allah, e promettono di conquistare il mondo. La percezione dell’Islam da parte dell’occidente è naturalmente influenzata da queste notizie, così come dai tanti cattivi servizi che i mezzi d’informazione fanno sull’argomento, spesso dettati da nessun’altra logica che quella della vendibilità editoriale. Così l’opinione comune finisce per associare Islam e terrore, e per proiettare un immagine violenta, crudele e sanguinaria su più di un miliardo e mezzo di fedeli.

Ma forse non tutti sanno che il vero cuore dell’Islam batte su ben altri ritmi: quelli del sufismo. Col termine viene comunemente definita la mistica musulmana, un movimento spirituale che percorre trasversalmente la storia dell’Islam dai suoi albori ai nostri giorni; anzi, secondo il parere di alcuni lo avrebbe addirittura preceduto come scelta esistenziale o meglio fenomeno metareligioso  che, dall’alba del primo giorno, avrebbe attraversato tutti i credi e tutte le religioni, per confluire infine nell’Islam, e trovare la sua più perfetta sistemazione…

Quale che sia la sua origine, resta il fatto che il sufismo è diventato parte integrante della fede islamica, e le sue pratiche devozionali si iscrivono a buon diritto nel corredo rituale della maggioranza dei fedeli musulmani. Non c’è villaggio, né valle, né montagna, né deserto che sia stato percorso dal piede islamico, che non porti segno e testimonianza del sufismo. Le tombe dei suoi santi fanno parte della geografia sacra musulmana tanto quanto le moschee e i minareti. Senza contare che tra le sue fila annovera molti tra i più eccelsi nomi della poesia, della letteratura e della filosofia di tutto il mondo: Rumi, Hafez, Saadi, Farid Attar, Al Ghazali, Ibn ‘Arabi, solo per nominare i più famosi.

La religione islamica non contempla la canonizzazione dei suoi santi, come avviene invece nella fede cattolica. Il santo sufi, anche detto derviscio (mendicante), shaikh (sceicco, anziano) o khalifa (califfo, vicario), diventa tale per acclamazione popolare, grazie alla fama di santità che si sprigiona intorno alla sua esistenza, oppure che si diffonde dopo la sua morte.

Vero è comunque che la santità è sempre stata – trasversalmente alle fedi religiose di appartenenza – un fenomeno fondamentalmente popolare, emblema e monopolio di una fede dal basso che, se pur inconsapevolmente, rivendica la propria autonomia e il proprio diritto alla passione sacra, in contrapposizione all’imperialismo religioso che ne vorrebbe dettare le regole. Anche nel cristianesimo, del resto, la canonizzazione avviene nella maggioranza dei casi come processo a posteriori di una devozione e di una fama già esistenti.

Nel caso dell’Islam, i praticanti di questa scelta esistenziale sono detti ‘sufi’, e sono raggruppati in ordini religiosi (tariqa) che possono essere anche molto diversi tra loro. Pratiche, riti e princìpi delle confraternite sono a dir poco eterogenei, e vanno dal derviscio itinerante scalzo e coperto di stracci al khalifa, ovvero capo della confraternita – passando per poeti, letterati e studiosi, sultani e mercanti, giudici e imam, viaggiatori, plasmatori di metalli, umili artigiani, suonatori, danzatori roteanti, o eremiti solitari. Alcuni sposati con una o più mogli, altri rigorosamente celibi, alcuni vissuti di stenti, altri gestori di floride attività, alcuni famosi nel mondo, altri celebri solo localmente.

Anche la stessa etimologia del termine sufismo (tasawwuf) è incerta e discussa. Potrebbe derivare dalla radice ‘suf‘, che significa lana, in riferimento all’abbigliamento dei primi dervisci; oppure da ‘safa‘, che significa purezza; una terza ipotesi lo fa risalire a ‘quelli del portico’ (ahl as-suffah), un gruppo di compagni del Profeta Mohammed che vivevano all’aperto, sotto una veranda appunto, costantemente in preghiera.

Le divergenze riguardano perfino il capostipite del movimento spirituale, dalla maggior parte dei fedeli identificato con Ali, cugino e genero del Profeta, mentre da altri con Abu Bakr, primo Califfo della storia islamica. Dunque il sufismo comprende una vasta tradizione cumulativa, che include differenze e peculiarità sostanziali a secondo dei contesti istituzionali e sociali entro i quali si sviluppa. Tuttavia, al tempo stesso il termine include e unifica tutti gli ordini religiosi, tutti i gruppi e perfino tutti gli individui singoli che percorrono la Via, ovvero che sono in cammino verso una realizzazione spirituale.

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LA VIA DELL’AMORE

Destini tanto diversi sono tenuti insieme dalla stessa identica meta. La Via dei sufi si muove nello spazio interiore, verso una realtà invisibile che non dispone di altra prova d’appoggio che l’esperienza personale. Per i dervisci, il senso ultimo dell’esistenza non giace a livello dell’evidenza concreta, ma resta nascosto nel mondo immaginale. E’ una filosofia profetica che cerca il senso segreto delle rivelazioni, non per svelarlo, bensì per custodirlo. Il nascosto, deve rimanere nascosto, dicono, altrimenti scompare. Chiamati a un incontro senza precedenti, i sufi accettano di presentarsi nudi e vulnerabili al cospetto di Dio. La loro è una resa incondizionata. Secondo un famoso detto sufi, equivale ad abbandonarsi alla volontà di Dio come uno straccio tra le mani della lavandaia. Un Dio che non si pretende di comprendere, né di descrivere e nemmeno di conoscere. Ma che ci si limita semplicemente ad amare.

L’angosciosa e incolmabile distanza divina concede infatti un miracoloso riscatto. E’ l’Amore il luogo dove l’impossibile Unione diventa possibile. E’ l’Amore l’occasione del reciproco incontro. Il cuore è l’organo del miracolo. Lo spiega Rumi nei suoi versi forse più famosi:

Ho cercato Dio tra i cristiani e sulla croce, ma non l’ho trovato. Sono andato nei templi dell’antica idolatria, ma neanche lì ce n’era traccia. Ho diretto la mia ricerca alla Kaaba, rifugio dei vecchi e dei giovani, ma Dio non era nemmeno lì. Alla fine ho guardato nel mio cuore e l’ho visto. Non era da nessun’altra parte.

Da cuore a cuore, dice un’altro grande maestro, è il metodo essenziale per trasmettere i segreti del Sentiero (Rudbari Naqshbandi). Nel mistero della contemplazione l’umano e il divino diventano Uno. L’Amore è la porta sulla soglia dell’Eterno. L’esistenza la possibilità di varcare quella soglia, per abbandonarsi finalmente nell’abbraccio infinito. Ed è questo il fine primo e ultimo del sufismo, il suo vero pane, la sua più profonda verità. Il cibo degli amanti non è il pane, ma l’amore per il pane, dice Rumi in un famoso verso.

I sufi diventano così Maestri d’Amore, esperti nell’arte di aprire il cuore e donarsi incondizionatamente al Bene Supremo. Amo come amano gli amanti, spiega Ibn ‘Arabi, senonché invece di amare il fenomeno, io amo l’Essenziale. Per questo Henry Corben, forse il più grande islamista, filosofo e teologo del secolo scorso, ha definito il sufismo, con felicissima immagine, “una metafisica dell’Amore”. Un frammento d’amore vale più dell’obbedienza di tutta l’umanità e di tutti gli angeli – è l’insegnamento di un grande maestro sufi dell’India medievale, Nizamuddin Awliya, che racconta anche la seguente storia, con Gesù come protagonista:

Alcuni israeliti un giorno insultarono Gesù, mentre egli passeggiava per le vie, nella loro parte della città. Ma egli rispose recitando preghiere in loro nome. Qualcuno gli chiese:”Tu hai pregato per quegli uomini: non hai sentito collera verso di loro?” Egli rispose:”Io posso spendere solo la moneta che ho nella mia borsa”.

Strumento per eccellenza dell’evoluzione spirituale dei sufi è la bontà, a cui viene riconosciuta un’importanza primaria e irrinunciabile. E’ una bontà travolgente, assoluta, disarmante, contagiosa – quasi, verrebbe da dire, disumana – davanti alla quale restiamo annichiliti e muti. Una bontà soprannaturale, forse spiegabile solo con le parole di Rumi: un santo è il teatro dove le qualità di Dio possono essere viste.

La Via dei sufi è lastricata di perdono e umiltà. Non solo porgere l’altra guancia, ma amare anche i propri nemici, pregare per loro, e augurare loro felicità e fortuna. Nessuno spazio per il conflitto. Si narra che un giorno un uomo portò un coltello d’argento in regalo al grande shaykh Baba Farid. Il Maestro glielo restituì dicendo: Portami un ago, invece. Il coltello è uno strumento che serve per tagliare. L’ago per cucire. Aggiunge Nizamuddin, suo discepolo e successore: Se qualcuno mette una spina sulla tua strada, e tu ne metti una sulla sua, dopo un po’ saranno spine ovunque! Possa invece Dio essere amico con tutti quelli che mi offendono. Possano tutti quelli che mi feriscono ottenere maggior riposo. Possano tutti quelli che spargono spine sul mio cammino, vivere vite che fioriscano come rose senza spine. E con splendidi versi conclude Hafez: E se il nemico m’assalta, son lesto a gettare lo scudo/: io non voglio sentir che si narri d’altra arma che il pianto.

Ma la metafisica dell’Amore ha valore solo se diventa pratica quotidiana, e dunque assistenza materiale e spirituale nei confronti del prossimo. Per questo i sufi sono stati gli instancabili soccorritori di chiunque avesse bisogno, senza distinzione di razza, fede, genere o classe sociale. Spesso i loro monasteri (khanqha) hanno riempito il vuoto lasciato dalle istituzioni nell’assistere le fasce più deboli della popolazione. Obbiettivo di tutti i maestri sufi è sempre stato quello di alleviare le sofferenze del prossimo, e far sì che chiunque varcasse la soglia del loro monastero, se ne andasse più sereno di come era entrato.

La prima regola francescana, che per altro, nella sua stesura originale, incitava a considerare i musulmani “fratelli e amici, che dobbiamo amare molto” (clausola che fu prontamente eliminata nella versione definitiva approvata dal papa Innocenzo III), ricorda molto da vicino quella di tante confraternite sufi. Un esempio per tutte, quello della Chishtiya, una delle più importanti dell’Islam indiano:

– non mangiare mai da soli (ovvero condividere sempre col prossimo tutto quello che si mangia)

– non volere niente, non chiedere niente e non desiderare niente; e se si riceve qualcosa di non voluto, non chiesto e non desiderato, dividerlo immediatamente col prossimo.

– non entrare mai e per nessun motivo in contatto col potere.

Del resto sia i monasteri prima, sia i sepolcri poi, sono sempre stati e sono tuttora frequentati da seguaci e fedeli di tutti i credi, atei compresi. I luoghi di culto del sufismo sono centri di devozione ecumenica, regni indiscussi di tolleranza e fratellanza, oasi di integrazione religiosa, sociale e culturale unici al mondo. Come canta un famoso qawwali, musica devozionale sufi: gli uccelli sono liberi dalle fazioni nel loro volo, alcuni si posano su un tempio, altri su una moschea…qui c’è una moschea, lì un tempio, qui una gurdwara (tempio sikh), lì una chiesa, chi prega qui, chi prega lì: l’importante è prostrarsi, non importa dove, purché ti inginocchi.

STRAORDINARI CANTASTORIE

Gli shaikh non predicano dal pulpito, non tengono sermoni, non insegnano niente nel senso stretto del termine. Piuttosto potremmo definirli degli straordinari “cantastorie”. Il tesoro peculiare della tradizione sufi consiste nella sua sconfinata collezione di adagi, storie, poesie, proverbi, parabole e racconti. Il ricorso alla narrazione allegorica non deve essere scambiato per una comoda scorciatoia per disquisire su difficili nozioni spirituali, piuttosto come l’emblema di una spiritualità che riconosce più importanza all’esperienza che alla teoria. I sufi insegnano attraverso le storie perché le storie lasciano sempre qualcosa di non-detto, un piccolo spazio di libertà concesso all’interpretazione individuale, un frammento scintillante di coscienza che implica la partecipazione attiva dell’ascoltatore. Non è un indottrinamento passivo, al contrario ci si aspetta che chi ascolta interagisca con la storia e incorpori il messaggio trasmesso in maniera personale oltre che universale. Se una storia non ti cambia, se non succede niente dentro di te, vuol dire che non l’hai veramente ascoltata, dicono i maestri sufi. Per questo il messaggio viene ripetuto all’infinito, in migliaia di versioni e variazioni.

Un re si reco’ un giorno a far visita a un santo e assistette, in qualità di osservatore, alla riunione presieduta dal Saggio. Più tardi gli chiese: “O Maestro, quando presiedi l’assemblea i tuoi discepoli sono seduti in semicerchio secondo una disposizione che somiglia molto a quella che di solito si adotta alla mia corte: ha per caso un significato”? Il santo rispose: “O Re, come sono disposti i tuoi cortigiani”? “Il primo cerchio”, spiego’ il re, “si compone di quelli che, per ragioni particolari godono dei miei favori, in modo da essere i più vicini. Il secondo cerchio e’ riservati ai dignitari più importanti e più potenti del regno, come pure agli ambasciatori. Quanto al cerchio esterno, esso e’ composto da gente di minore importanza”. “In questo caso” disse il santo, “l’ordine nel quale le persone sono qui disposte e’ ben diverso dal tuo. Coloro che sono seduti vicino a me sono i sordi, cosi’ possono sentire; il gruppo intermedio e’ costituito dagli ignoranti, cosi’ possono prestare attenzione all’insegnamento. Infine, quelli più lontani sono gli Illuminati: questa forma di vicinanza per loro non ha alcuna importanza”.

Tra gli strumenti impiegati dal sufismo sulla Via dell’evoluzione spirituale, non manca l’ironia, dispensata con generosità dagli shaykh nei loro insegnamenti. Esiste addirittura un personaggio, il Mulla Nasiruddin, una sorta di Pulcinella mistico, che elargisce le sue perle di saggezza usando esclusivamente barzellette e giochi di parole, alcuni dei quali diventati leggendari. Come la storia di quell’uomo che cercava la sua chiave in un cortile. “Dove l’hai persa?” gli chiede Nasiruddin. “In casa”, risponde lui. “E allora perché la cerchi in cortile”, ribatte il Mulla. “Perché qui c’è più luce”.

Spesso gli insegnamenti sono in forma di dialogo tra due amici:

-Hai il cuoio?

-Sì

-Hai i lacci?

-Sì

-Hai le suole?

-Sì

-E allora perché non ti fai un paio di stivali?

Tuttavia, ironia, bontà e fratellanza non sono riuscite a salvare il sufismo dalle tenaglie della censura e della persecuzione. L’ortodossia islamica ha spesso accusato il movimento spirituale di idolatria, e ha perseguitato maestri e confraternite come nemici della sharia, la legge islamica. Mansur al-Hallaj, mistico e scrittore rivoluzionario nella Persia del X secolo, fu giustiziato pubblicamente a Baghdad , tagliato in pezzi e poi bruciato, mentre ripeteva come un mantra “Io sono la Verità”. Nel 2010 una bomba ha ucciso 5 persone davanti al sepolcro del santo sufi Baba Farid a Pak Pattan, in Pakistan. Davanti alle accuse mosse dai gruppi fondamentalisti, da 1000 anni a questa parte, il sufismo si è sempre difeso rispondendo che non c’è niente di sbagliato nella sharia, ma se mai nella mancanza di cuore da parte di chi la interpreta e la applica. La sharia è l’Amore, dicono i sufi.

Capire il sufismo non è un processo teorico, bensì un’esperienza trasformante. Il logos classico non funziona, si incaglia ogni due passi. La razionalità diventa un vicolo cieco. Statistiche, schemi e diagrammi, sono strumenti inutili. Davanti al sufismo siamo tutti, anche i più colti, come bambini balbettanti. E’ stato scritto: “Tutto quello che può essere espresso in parole non é sufismo”. Vale a dire che il sufismo non ha un equivalente verbale. Per questo ogni discorso sul tema – indipendentemente dalla fede del suo autore o autrice – non riesce ad essere esaustivo, e sembra fermarsi ai confini esteriori, lasciando intatto il contenuto sostanziale. Cercare di tradurre in termini razionali l’ineffabilità dell’esperienza mistica – di ogni mistica – è come cercare di dissetare qualcuno parlandogli dell’acqua.

Per questo, forse il modo migliore per concludere questo articolo è proprio lasciare aperto il discorso, chiudendo l’ultimo paragrafo con dei punti di sospensione, che lasciano intuire la possibilità e la necessità di un proseguimento. Oppure, come se nella penombra dell’assemblea, sedessimo davvero accanto a un Maestro, in silenzio, in attesa di ascoltare le sue storie…

STORIE SUFI

C’era una volta un santo che preparava una zuppa molto buona, e la vendeva per strada per un diram a scodella. A volte, qualcuno lo pagava con una moneta falsa, ma riceveva in cambio la stessa zuppa calda, proprio come chi gli aveva dato denaro autentico. La gente cominciò a pensare che lui fosse così stupido da non distinguere un soldo buono da uno fasullo, e molti lo provocavano pagandolo con pezzi di ferro, di legno o di cartone, ma sempre ricevevano la stessa zuppa in cambio.

Quando fu in punto di morte, il santo alzò gli occhi al cielo e disse: “O Dio, tu sai bene che la gente spesso mi pagava con denaro falso, e io l’accettavo per buono. Non ho mai protestato, né mi sono offeso per questo. Così ti prego, anche tu, se hai ricevuto da me falsa devozione, non offenderti!”

C’era una volta un asceta israelita. Per anni aveva scrupolosamente obbedito a Dio. Ma un giorno arrivò al profeta del tempo questo messaggio: – Và e dì a quell’asceta: “Che cosa credi di ottenere da tutti i sacrifici legati alla tua rigida osservanza?Tanto ti ho creato solo per punirti!”

Appena il profeta riferì il messaggio all’asceta, egli si alzò in piedi e cominciò a saltare di gioia.

Perché mai questa rivelazione ti fa così felice da metterti a ballare?”lo interrogò stupefatto il profeta.

Perché come minimo si è ricordato di me” rispose l’asceta, “Mi ha preso in considerazione. Ho potuto fare esperienza della sua attenzione!!!”

Un giorno il califfo di Baghdadh aveva fatto imprigionare un ragazzo. La madre andò a supplicare il califfo di liberarlo, ma lui rispose: “Ho dato ordine che il ragazzo stia in prigione, e fintanto che sarà vivo un solo membro della mia famiglia, quest’ordine sarà rispettato”. La madre allora cadde a terra piangente e, alzando gli occhi al cielo, disse: “Questo è l’ordine del califfo: qual è il tuo comando?”

C’era un giudeo che viveva nel quartiere di un santo. Quando il santo morì, la gente interrogò il giudeo: “Perché non sei diventato musulmano?”

Se l’islam è quello che professava il santo” rispose il giudeo, “allora non ne sono degno, ma se è quello che professate voi, di un tale islam io mi vergogno! 

Un ladro entrò nella casa di un sufi e non vi trovò nulla. Stava andandosene via, quando il derviscio si accorse del suo disappunto. Allora gli gettò la coperta in cui dormiva, perché il ladro non se ne andasse scontento e a mani vuote.

Un santo era solito dire: “Chiunque abbia un problema dopo la mia morte, ditegli di visitare la mia tomba per tre giorni, e se il problema non si risolve, che venga per un quarto giorno, e se ancora il problema sussiste, ditegli di venire un quinto giorno, e smantellare la mia tomba mattone per mattone.

MASSIME SUFI

Non c’e’ nessun derviscio, e se c’e’ un derviscio, non e’ un derviscio (Rumi)

Un essere umano non e’ un essere umano fin quando fra le sue tendenze vi sia indulgenza verso se stesso, cupidigia, collera e spirito aggressivo verso il prossimo. (Al Ghazali)

Si possiede soltanto ciò che non può andare perduto in un naufragio. (Al Ghazali)

Capacita’ d’interpretazione vuol dire saper leggere agevolmente quanto ha detto un saggio in due direzioni totalmente diverse tra loro. (Ibn ‘Arabi)

Un asino carico di libri non e’ ne’ un intellettuale ne’ un saggio. (Saadi)

Quando saremo morti non cercate le nostre tombe sotto terra. Le troverete nel cuore degli uomini. (Epitaffio per Rumi)

Inutile e’ una stupefacente lattazione se la mucca con un calcio rovescia il secchio pieno (Muinuddin Chishti)

Se la tua vita e’ offuscata dall’insoddisfazione non lamentarti, giacche’ non dura più di un respiro. (Farid Attar)

Il discolparsi e’ peggio dell’azione originaria. (Sceicco Ziauddin)

Il peccato contro Dio è una cosa, ma peggio ancora è peccare contro l’uomo. (Sufian Thauri)

La generosità consiste nel fare il giusto, senza richiedere che il giusto sia fatto a noi. (Hujwiri)

Più danno vien fatto dagli sciocchi con la loro stupidità di quando non ne facciano i malvagi con la cattiveria. (Il Profeta Mohammed)

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