La mia ferita mi somiglia

9 Ottobre 2014
Marta Franceschini
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Testo Collettivo a cura di : Annamaria Albano, Giorgia Di Nardo Fasoli, Giovanni D’alessandro, Marta Franceschini, Barbara Goldoni, Luigi Liserre, Giacomo Lo Duca, Marina Zauli.  
FERITAQuesta e' la storia di un viaggio tra deserti e paludi inesplorate. Una terra che si chiama “ferita”. L'eroe e' un'eroina che non teme l'indeterminatezza del genere, la lontananza dei secoli, l'incoerenza dei pensieri. E' consapevole della complessità' dell'esistere, e dell'effimera illusione di definirsi. Accetta il rischio di riconoscersi in ogni parte di se', di esprimersi in una moltitudine. Ma non rinuncia all'audacia del canto, per tradurre in immagini e pietre la sua avventura. Percorre strade inconsuete alla testarda ricerca di un senso, di una verità' che non ha pretese di assoluto se non sull'attimo che illumina, come scintilla. Attraversa con tremore e coraggio le più' scure valli del destino, incontra paure, fantasmi, tentazioni...nuda, scopre tesori. E giunge a destinazione armata solo di carta e di penna.

1

Il luogo più sicuro al mondo e’ il ventre materno. Una maglia verde bucherellata, il sorriso di mia madre, sole alle spalle. Non sapevo allora che fosse una felicita’ irripetibile. Nella mia famiglia ci si toccava solo quando ci si prendeva contro.
Corpo. Ironia. Si riflette nella camera, ma la camera non c’e’. L’affermazione di un’esistenza in un riflesso. Uno specchio. Ricordo la forza che sentivo nel rendermi introvabile e invisibile mentre sapevo di esserci. Era una forza fisica come abbattere un muro. L’impressione pero’ era di andare oltre il muro senza abbatterlo. Avevo scoperto il potere di attraversare i muri senza farmi male. C’e’ bisogno di uno spazio aperto al mondo.
Il luogo più tremendo era la cantina. Fuga impossibile, eppure tento. Riuscirò a raggiungere il cortile prima che lui mi afferri? Le mie lacrime buie, testarde, affilate…Paura di dire “non vergognarti di me”. Paura di perdere la capacita’ di vivere le emozioni. Ma poi la sicurezza cos’e’? Indigestione notturna: masticare con nervosismo sempre gli stessi buchi neri.
Di colpo il cielo sembro’ unirsi al mare creando un’unico telo azzurro. Aperto, profondo, comunque inaspettato. Il tempo può portare molti imprevisti. Vedere l’ostacolo all’ultimo momento ed inciamparci sopra. Pezzi di vetro in ogni angolo…carboni ardenti…La paura di quei 10 nano-secondi tra la domanda e la risposta. Il pensiero che i miei genitori non esisteranno più, o quello di assistere impotente al dolore e alla sofferenza. Vorrei essere salvata.
Lentamente guardo gli altri passare e mi sento uno qualsiasi. Non devo fare nulla. Com’e’ buffo vedere il cielo su di un marciapiede. Attimo di stupore quotidiano. Lentamente guardo i miei bambini e li amo profondamente con tutto il mio corpo. Voglio abbracciare chi piange il mio sonno, voglio prendere tra le mani i miei scheletri peggiori e farci una danza.
Scivolano via giorni mesi anni, non stanno fuggendo, fluiscono dentro di me ed io dentro di loro. Lascio una scia di polvere colorata, il carburante per il viaggio sono i miei ricordi. Sono felice, vado verso l’immenso. Finalmente si compie il mio destino di donna. Lo sentivo dalle voci dei sogni…lo sentivo dai profumi…eppure non ci credevo. Tanti why, nessun because, due facce della stessa medaglia. Vorrei diventare musica. Vorrei sentire il non essere e il non essere mai stato. Vorrei fare l’amore con la morte prima di morire.
Io ho imparato a volare. Volo proprio come vola la moglie del violinista di Chagal. Volo col cuore tra le mani, esposta a ogni pericolo. Volo, ma capisco che il mare e’ la culla del mondo, allora voglio nuotare, e far volare il pesce. Ho un senso di vertigine, eppure sono fermo, al centro della tempesta perfetta. Ho cosi’ tremendamente bisogno di alzarmi in volo che se non lo faccio il cielo si trasformerà in cenere e tutte le piume di tutti i pennuti del mondo cadranno immediatamente a terra, e non si potrà che piangere su quel tappeto obbligato. Ma adesso, il mio posto e’ sulla terra. La terra ha fame…una fame devastante…insaziabile. Raggiungo mio fratello, e lo abbraccio nonostante tutto.

2

androgyny_by_helencalacci-d34681sLa mia ferita mi somiglia. Ha gli occhi lucidi e compassionevoli di un boia. Un serpente che vuole essere presenza, un morso non dato, una culla eterna e abbandonata. Nostalgia profumata di trasparenza. Sembra qualcuno che vedo quotidianamente ma di cui mi sfugge il nome. E’ un capolavoro non salvato, una goccia di pioggia in caduta libera. Ma questo e’ solo l’inizio: mi guardo negli occhi, osservo il movimento impercettibile del mio silenzio interiore. Tremo. Nulla e’ più come prima. Adesso tocca a me.
C’era una volta un re seduto su un sofà, e una serva che se ne andò il più lontano e velocemente possibile. C’era una volta un re, ma adesso non c’e’ piu’. Assoluto irripetibile. Spesso i re non sanno parlare…hanno la lingua schiacciata…E’ finito il tempo delle favole, ora anche il cielo e’ ferito. C’era una volta altissima tutta affrescata, e lì in quella forma convessa era scritta la storia della fine del tempo e dell’ inizio dell ”eternità. Un aspetto positivo c’era: finivano anche i traditori.
La mia ferita odia sorrisi e risate, nessuna linea curva, solo rette, possibilmente interrotte. Ancora meglio se all’improvviso. Forse rintraccio per terra qualche briciola: sono le conseguenze. Mi colpisco sempre nello stesso punto, e a volte penso che non ci riuscirei se non fossi cosi’ attenta…scrupolosa… La mia ferita odia il ghiaccio, vuole incendiare il Polo, dare fuoco al mare. E’ cosi’ furiosamente incazzata da ridurre in cenere il mondo intero e poi sputarci sopra. O almeno credo. Proprio come un pesce fuor d’acqua, qualcuno soffocherà sulla banchina di un porto qualsiasi. La mia ferita odia la fortuna e chiede di restare sola.
Faccio fatica ad ascoltare gli altri, figuriamo me stesso. Quando l’oceano si schianta nel mio petto il respiro e’ inciampato e l’eco di un urlo mi si spezza tra le mani. Annaspa il cuore, ed io con lui. Non sono sicuro che riuscirò a contenerlo, e’ dirompente. Gli urlo che sono contento, che lo aspettavo da tempo. Mi piace essere investito dalle sue schegge, lo aspetto fiero ed eretto e mi sento un dio greco che sfida la forza della natura.
La mia ferita ama ridere a squarciagola quando scelgo la misericordia. Lei ama il mio cuore affamato e bruciante, i miei sospiri…i miei infiniti affanni… Ama i miei muri, perché sono loro il suo cibo preferito. Regina della quiete, galleggia in superficie come una chiazza di greggio in uno specchio d’acqua. Si veste di rosso e spalanca le finestre, ma alla parola amore sbaglia il tiro, e manca completamente il bersaglio. La mia ferita ama schiantarsi. Lei si nutre del baccano delle sue ossa rotte. Il tutto naturalmente accade nel più lungo silenzio, nudo. Ma ci sono anch’io. Dove andremo a finire? Ubriacandosi resta viva e mi dedica una canzone nostalgica. Vorrei chiederle: non sei stanca della tolleranza che mi abita?
Il tuo dolore sarà anche il mio. Impeccabile. Ad ogni passo un cadavere che cammina. E tu vai via con i miei progressi in tasca come carta straccia. Sulle spalle da elefante che mi ritrovo ci metto tutto…neanche un granello resta a terra…e’ tutto mio. Non riesco a sentire. E comunque non voglio ascoltare. Chi non e’ ucciso dall’amore e’ condannato a sopravvivere, non può risorgere, e’ carne morta, intrisa di sangue, che ha tenuto per se’. Eppure, morto e rinato, amo ancora. Digiuno per gli avvoltoi.
La mia ferita dice: unisci le mani, ti verso il sangue che e’ rimasto impigliato lungo gli anni. Leccami voglioso, e smettila di fare di me un bottino di guerra. Ma io davanti a lei sono sordo e cieco. Le sue mani sono ossute, conosco la loro stretta intorno al mio polso. Più antica della lama che l’ha tracciata, più stanca della mano che impugnava il coltello. La guardo, sanguina. Muta. Mi guarda. Vedersi riflesso e non capire cosa ti ha fatto diventare quell’uomo, quel cane, quel matto. La donna lasciata in frantumi ha sparso i frantumi fra i ruscelli, fra i fiumi. La senti anche tu questa musica?
Eravamo sotto un cielo rosso, la notte ci aveva preso per mano da molte ore, conducendoci in quei giardini crepuscolari dove sbocciano domande e maturano dubbi. Io ho ancora un pezzetto di cielo rosso incorniciato in camera. Di certo riconosco le trombe, e i violini che tingono il tramonto. Osservo la danza del mio emozionato candore. E’ questa la felicita’? Torniamo ad ascoltarci, ancora prima di parlare. Ma io non sento che i tuoi passi dietro alla porta chiusa. Evitami, e ti accompagnerò per sempre.

3

due facceCaldo afoso, erba secca, aria immobile. In lontananza uomini curvi a lavorare i campi. Stridono i pensieri come denti che digrignano masticando aria: perché non parlate uno alla volta? Le parole sono state un diluvio di rocce. Ci siamo lasciati buchi nella carne. Provo a strisciare dentro di me e contemplo la voragine scavata nel mio petto. Il segnale di pericolo può arrivare anche a passi di danza. Rumore di fondo continuo. Basta, sono stanca, fate silenzio! Che io poi il silenzio lo odio… Forse.
Quando sarò ibera, guarderò in alto. Come pietra paziente aspetto la mano che mi scaglierà oltre la siepe, sento la carena del vento, e quando la terra trema mi spavento. La mia pazienza ha lo sguardo triste di una vecchia vedova vestita di nero, lo strazio di un quartiere popolare con la povertà appesa ai fili e le paraboliche al posto dei cuori. Un urlo che non esce mi strozza. Domande feroci che non si scoraggiano mai. Mi logoro, mi illudo, mi schianto. Sprofondo nella terra umida, come pietra paziente, senza fretta di essere tirata nel lago.
Ho ucciso, cercavo silenzio. Assassini che camminano sulla punta dei piedi per non svegliare se stessi. Chi tortura senza un sospiro e chi si lascia torturare senza fiatare. È un nero profondo che calamita le mie forze. Vittime sciagurate, le scelte traballanti che mi porto sui palmi. Poi urlavo da sola, come una pazza, sotto la doccia. Mi commuovo spesso delle mie lacrime, cerco risposte con le quali vorrei bucare il cielo. Catene intorno alle caviglie. Fingo di voler vedere, invece ne approfitto per trincerarmi nel buio. Il silenzio assassino e’ un redentore, taglia le parole sul foglio come fossero burro, ed io ne faccio il mio macigno sulla schiena. Esagero, sconfino, devasto. Assassino era il parlare.
Mi stai supplicando di non esistere. Lingua piccola e sporca, voglio punire la tua miope e superficiale insolenza. Smettila di sputare frecce dai denti. La tua bocca assomiglia a un pomodoro vecchio e grinzoso, che nessuno vorrebbe baciare. Le tue parole non hanno riempito le mie vene di nostalgia claudicante. Mani di bambino che distratte e maldestre cercano un giocattolo da tirare sul tappeto. Taci, perché e tutto da dire, ma adesso no, non e’ il momento. Lasciati respirare per la prima violentissima volta.
Nel silenzio del mio respiro avverto una forza di onnipotenza esplodere nelle vene, mi sento un gigante che muove i suoi passi verso la montagna. Mi piace stare qui immerso nel bianco della roccia, circondato dai riverberi delle scaglie luccicanti di selenite, stordito dall’odore forte del grano tagliato. Se potessi restare cosi’ per sempre. Cuore vivente. Un overture radiosa e leggera che l’umana partitura volge a rantolo pesante. Srotolo pergamene di pianti antichi, respiro granelli che privi del peso della comprensione vengono alzati dal vento e posti in mani più grandi. Il mio respiro insegue il cuore.
Mi dispiace, ma l’angoscia della sopportazione è più forte della paura di perderti. Guai amarci. Un pareggio a reti inviolate, qualche volta un’onorevole sconfitta. Su una distesa di braccia rotte, su un tappeto di parole metalliche, evaporo velocissimo. Scomparire e’ la mia lussuria. Io dolente vorrei ritornare al gioco, essere io stesso un giocattolo. E invece, io carne viva straziata. Quando gli dei vogliono punirci esaudiscono le nostre preghiere.
So che il cielo mi sta parlando. Ascolto la voce di mia madre che non c’e’ più. Mia madre, che gira giovane su se stessa facendo roteare una gonna beige, di cui andava orgogliosa. L’ascolto e’ un’arte, ma dentro di me c’e’ il frastuono. Un muro di nodi che fanno paura e che io continuo a legare, legare, legare… So solo ascoltare me stesso. Sono prepotente come una marmitta che intossica le piante. Onda che sbatte e ribatte sullo stesso scoglio, goccia che fora e trapassa, filo che taglia. Con il mio lunghissimo mantello nero creo la notte e distribuisco i sogni. Gioco con una cannuccia ricavata dal fusto che fino a pochi giorni prima teneva alta una spiga. Ha un sapore dolce e mi piace inumidirla con la saliva. E mi chiedo: quanti respiri faro’ ancora prima di morire?

4

giovane ragazza ingleseIl mio male è primitivo, mi lega le palpebre alla fronte. Gli occhi spalancati dopo il pianto sono più belli. Giorni amari, quando resta sul fondo una quiete quasi di tomba. Non tutto si può salvare. Il mio male assomiglia a un chiodo conficcato nel vuoto, e’ mio senza appartenermi veramente, e questo lo rende atroce. E’ condiviso e questo ne aumenta peso e bruciore. Unicità come condanna. Siamo noi che culliamo il nostro male nel cuore, noi che lo allattiamo. Io ci sto sopra e oscillo ad ogni suo più piccolo movimento.
Alla sorgente di questo dolore io attingo incessantemente…volontariamente. La cura e’ nella pena che si guarda allo specchio, e un giorno si scopre ricca d’oro. Come il veleno, contiene il suo antidoto. Io la onoro e raddoppio la posta. Leccare le spade della separazione, succhiare la bile della lontananza. Doloroso, ma sempre meglio dell’inesorabile niente della mancata assenza. Lentamente prende sonno la mia pena. Non ricordo più di essermi ferito.
Se potessi restare sempre li’, nel centro del centro. Sola, immobile, piena. Invece imprigionata sbatto contro un muro. Posso darti un cuore teso in un ascolto tremante, fermarmi sulle tue ginocchia un’altra volta, cercando di non cadere. Ho dimenticato come camminare… Momenti attimi lunghi, netti, momenti come schegge. Una boccarossa che mi fa le smorfie. Se potessi uccidere quel bambino fastidioso e saccente, che prende tutto lo spazio come un gas mortale. Maledetta ripetizione di passi, sorpassi, inciampi. Maledetto vizio di tenere il conto delle persone perdute. Se potessi far sentire ai muscoli degli stupratori le contrazioni di un parto complicato.
Periodo strano per me. Fughe illegali, tossiche, scoperte, sudate. Un sonno senza sogni e un sogno al mio risveglio. Vorrei tutta la forza della natura, sentire con le dita lo spessore delle corde che manovrano il burattino. Ho bisogno di guardare in alto. Succhiare dal cuore con le labbra socchiuse. Sconfiggere il non-senso brutto e squallido di queste ore. Ho voglia di assoluto.
Mi spoglio come in un rito per attraversare l’abisso, trionfante come una regina. Cadono a terra secoli di ingiustizie e millenni di soprusi. Nuda, resto impudica e orgogliosa. E’ un’epifania quell’attimo. Non posso nascondermi dove tutto traspare. Finalmente, mi sento veramente libera.
Dove sei e come posso riconoscerti? Sono fatta di crepe e lesioni, pero’ ho visto un angelo. Tu ti chiudi e inghiotti la chiave. Sulla spiaggia dei vagabondi ciechi rovisto tra gli stracci di una vita al sicuro dalla vorace fame del tempo. Ne’ prima, ne’ dopo, solo bastante presente.
Io posso smentirmi e arrotolare tutte le belle parole che usiamo per incorniciare i momenti. Camminare e ritrovarmi spine sotto i piedi, o ballare sulle punte dei miei errori senza paura di cadere dai tacchi. Posso fare sogni premonitori, dimenticarmi chi avevo detto e affermato di essere, fare un salto in avanti quando meno te lo aspetti. Posso inginocchiarmi ai piedi della meschinità del mio tormento o commuovermi davanti ai miei cocciuti e ridicoli tentativi di esistere.
Mi apro per ascoltare la voce della storia e brindare con lei, mi apro come un libro letto e riletto e ti invito ad entrare: c’e’ posto dentro di me. Lo definirei un luogo incolmabile. Mi stupisco di rintracciare in me gli oggetti più strani. Spingo i miei passi in avanti, con fatica. Per una volta ancora ho evitato l’impatto. Resto in bilico, perennemente affamata, sotto il peso di una fatica scomposta. Il mio corpo, orfano di guerra, mi guarda e tace. Aprirsi non basta.

5

Cadono a terra i giorni delle decisioni, i giorni di ferro del mondo che urla. Strappo via ogni brandello di necessita’, lancio giù per quella rupe di doveri anche l’ultima delle mie costrizioni. Contemplo lo splendore dei miei errori, irriverenti crepuscoli di me che si azzuffano nel presente. Spalanco gli occhi, il cuore, le vene e mi getto… Trasformo la mia ferita in un lungo pianto, in un brutto sogno che svanirà al mio risveglio. Un vaccino che non mi faccia ricadere in quel male oscuro, una risata che muti le lacrime del pianto. Lo faccio con dita tremanti, prima che la ferita trasformi me, prima che spalanchi la bocca. Sono pronto. Alzerò lo sguardo sopra i muscoli umiliati dal sudore, muscoli di vite stanche, e mi metterò al lavoro con serietà preistorica. La mia ferita diventerà finalmente necessaria, pasta-madre per far lievitare il pane, occhiale per la mia vista stanca. Spazzerà via i chiodi dai pavimenti, e stabilirà un nuovo ordine.
Come sigillo sul cuore porto un amore vecchio sette secoli, e un gradino di marmo da baciare. Desiderio incessante dell’onda per la riva. Vorrei scolpire il tuo amore ed esporlo orgoglioso come stemma del mio nobile rango. Rosso come ceralacca. Alzo le sue bandiere e le offro al vento, che le accarezza come un complice amante. Mi sento fiero e coraggioso, combattendo nel suo nome. Perché dobbiamo vivere assenti? Sbatto le ali contro pareti di cemento, per tornare a credere che un mistero esiste. Imprigiono il mio dolore in una torre altissima, se vorrà essere ascoltato dovrà suicidarsi dalla torre. Voglio dimenticare e seppellire tutto sotto cumuli di pietra nera.
“Metamorfosi”, urla imperioso il comando del Capitano: lo scafo si trasforma e diventa fusoliera; la prua un lungo becco; le vele le sue ali. Ora emerge dall’acqua e, planando sulla cresta delle onde, si solleva. Finalmente il veliero vola. Metamorfosi dei miei limiti, metamorfosi di assenze. Lego lacci che diventano ghirlande. Contemplazione di un ritorno diverso ma inevitabile, richiamo di un passato inconfessabile che si erge a chiave di un milione di porte sbagliate. Finestra spalancata ad abbraccio. Saggezza terminata in bacio. Chiave di violino, fianchi larghi, coda. Alla fine del mondo, c’e’ davvero un paiolo con le monete.
Accettare che l’ingiustizia si compia sulla tua pelle e’ l’unica libertà possibile. Il caos che oggi odio, sarà ordine domani. Penso a ciò che ho odiato e non e’ stato aiuto, ma gabbia millenaria. Non sacrificio, ma necessita’. Le mie parole sono lucide navi che tra una corsa e un pianto si affannano per sorpassare l’orizzonte. Hanno il sapore intenso di un dolce al miele, capace di legarti la lingua alle guance.
Accetto il rischio di vivere una vita qualunque. Senza fuochi d’artificio, ne’ montagne da scalare. Una vita senza libri da scrivere. Accetto il rischio, ma mi prendo la libertà di incazzarmi per il risultato. Voglio giocare onesto, pero’ come ogni ladro innocente, ho i miei assi nella manica. Con la noia pigra di una vittoria non combattuta, prima che la paura mi divori, la sbrano io. Ho rischiato cadute in ginocchio sulle schegge di ogni follia. Quasi non mi perdono. Accetto il rischio di morire di noia e di fatto, e salgo sulla giostra per un altro giro.
Rischio di amarmi. Smettere di voler essere, per restare nel respiro. Una betulla dalle foglie cangianti. Inseguo il fiume che si nasconde dispettoso. Sento il profumo della madre che allatta i suoi cuccioli. Salto mortale e’ stato svegliarsi una mattina all’alba uniti e confusi. Non solo non si muore, ma si torna esattamente come e dove si era. Slancio vitale, allungo la mano per arrivare dall’altra parte. Temo di perdere la mia ombra nella foga di toccare il fondo. Il vuoto mi fa meno paura della morte.
Giornate strette, giornate in cui la mente sibila, il vento rantola, ed io resto inginocchiata. Tocco la strada con la fronte nuda. Muoio innumerevoli volte, striscio verso l’acqua per cercare la Madre dell’inizio. Mentre muoio, nasco. Risorgo, e tutto si rivela, molto più di ciò che appare. Il sudario non serviva. Occhi negli occhi. Uniti come labbra di bacio.
Armati di carta e matita, tessiamo storie intrise di sangue. Ho scritto come la musica che esce dalla bocca del neonato. Puro istinto, tremendamente perfetto. Tutti i significati riuniti in un senso senza significato, che rivela il suo messaggio a chi, ascoltando, si fa analfabeta. Ho scritto sotto le unghie il tuo nome, ho navigato pensieri senza vele spiegate a spingere la barca della mia mente. Ho riempito interi fogli bianchi, alleggerendomi della fatica del naufragio. In pochi hanno capito il mio gesto quasi eroico. Ho scritto parole delle quali ho compreso il senso solo dopo una corsa affannosa dentro di loro. Ho lasciato parlare una lingua senza voce e ho spiccato il volo tra gli applausi del pubblico. Ho scartato con uno sguardo le reti di salvataggio per puntare decisa verso l’alto. Mi sono inginocchiata e ho aperto la bocca. La mia ferita si e’ fatta eucaristia. Amen.

 

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