Intervista ai Park Avenue: «L'apice della nostra carriera? Lo Sziget!»

28 Maggio 2014
Laura Berlinghieri
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paNati nel 2006 a Novara, nei loro quasi dieci anni di carriera i Park Avenue hanno calcato alcuni tra i più palchi importanti europei. E’ da poco uscito il loro nuovo album, Alibi.
Ecco la nostra intervista a Federico Marchetti, cantante del gruppo.

Com’è nato il nome Park Avenue?

Niente di interessante, semplicemente ci piaceva come suonava. Prima infatti avevamo un nome più lungo, Grown children’s Park Avenue: evidentemente troppo complicato, visto che i giornali lo storpiavano sempre. Così, abbiamo deciso di tagliarlo e lasciare Park Avenue.

Avete suonato in diversi contesti importanti a livello europeo: qual è stato quello che più avete apprezzato?

Ci è piaciuto molto suonare allo Sziget Festival a Budapest: un festival gigantesco organizzato in un’isola in mezzo al Danubio e che ogni giorno contava un milione di persone da tutto il mondo. Insomma, una cosa veramente tosta. Finora quello è sicuramente stato il momento più bello della nostra carriera.

Quando avete iniziato a suonare insieme che obiettivi vi siete dati?

Di sicuro non avevamo l’intenzione di rimanere a suonare solo a Novara, la nostra città. Volevamo proporre un repertorio nostro e quindi non c’era limite al sognare e allo sperare di suonare in tutto il Paese. Quando si ha una passione, va da sé che si pensi sempre al massimo.
Quello che posso dire è che non facciamo musica per arricchirci, anche perché siamo tutti ragazzi che lavorano. Certo, vivere di musica è il nostro sogno e quindi speriamo che questa passione possa diventare in futuro anche il nostro lavoro.

Cosa vi ha spinto a passare dalla composizione in inglese a quella in italiano?

Tutti dicono che abbiamo voltato pagina, ma in realtà non è così. Noi abbiamo sempre scritto in inglese e continuiamo a farlo tuttora: nel disco ci sono tre canzoni in inglese su dodici e nei nostri concerti metà del repertorio è composto da pezzi in inglese. Abbiamo un modo di scrivere e di suonare estremamente immediato che si adatta bene a quella lingua. La nostra però non è stata una scelta di mercato. Semplicemente ci siamo accorti che l’inglese in Italia non è conosciuto molto e quindi temevamo che la gente non riuscisse ad apprezzare appieno i testi delle nostre canzoni. Quindi, per questo disco ci siamo imposti di scrivere nella nostra lingua per capire se effettivamente al nostro pubblico piaceva il nostro modo di dire le cose.

Nel disco è subito rintracciabile l’idea del live, con i suoi suoni potenti. Quanto è importante per voi la dimensione dal vivo?

E’ fondamentale: noi ci rompiamo le palle a non suonare dal vivo. Se ci ritenessimo dei fenomeni e non suonassimo davanti a un pubblico allora saremmo solo dei chiacchieroni. E quindi abbiamo voluto dare questo stampo al disco, che è infatti suonato in presa diretta.

Che risposta vi aspettate dal pubblico per questo album?

E’ un disco molto spontaneo in cui abbiamo inserito esperienze vissute da noi stessi in questi ultimi anni: il diventare adulti, che comporta tutta una serie di problemi, scelte, dubbi, le prime responsabilità. E il messaggio che abbiamo voluto dare con questo disco è “Prenditi in mano la tua vita e fanne ciò che vuoi”. Quindi, essendo un album estremamente spontaneo, non abbiamo pensato a quanto possa piacere. Noi siamo soddisfatti di essere stati così limpidi nel raccontare le nostre esperienze e quindi speriamo che queste possano fare riflettere le persone che ascolteranno l’album, così come hanno fatto riflettere noi. E in questo la musica è un veicolo meraviglioso.

Nel vostro futuro che cosa vedi?

Dopo i risultati delle elezioni europee non lo so! A parte gli scherzi, vediamo musica. Speriamo di avere sempre questa voglia di suonare, faticare (perché comunque si tratta di un investimento bello tosto in termini di tempo ed energie). E poi speriamo di migliorare e arrivare a sempre più persone.

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