Aveva ragione Alda Merini, quando scrisse: "Da queste profonde ferite, usciranno libere farfalle"
In piedi sulla scrivania, imbratto di parole e disegni una delle pareti di camera mia.
Le mani si tingono di inchiostro, e di colori: un po’ di verde sulle dita, che la speranza non c’entra nulla.
Il verde mi ricorda i fiori, e quella loro straordinaria capacità di sbocciare pure tra le macerie. O tra le fila del cemento. Strafottenti, e coraggiosi. Bellissimi.
E poi il giallo, al centro del mio palmo. Fa il verso al sole che, in questi giorni, sta provando e riprovando il suo inchino. All’Estate. E’ fatto così, non vuole sfigurare.
E il blu lungo i polsi, che il cielo oggi è distratto, e allora me ne disegno uno spicchio sulla pelle. “Se lo scrivi, resta” – così mi hanno detto. Ed io voglio che resti. Perché non lo so com’è Il Cielo Sopra Berlino. Ma quello Sopra Si Me è bello di sicuro.
Io me lo sono conquistato, il mio scampolo di azzurro. Ho combattuto affinché si facesse terso, ed il mio cuore non era poi così aperto. Era un cuore spaventato, un po’ ammaccato. Un cuore col dito puntato. Mi accusava di averlo maltrattato. Ma quello è riuscito ad infilarcisi lo stesso. In qualche modo, il cielo mi è entrato dentro. Mi ha presa alla sprovvista. Me ne sono accorta solo quando, improvvisamente, ne ho percepito l’infinità. Allora, è successo che ho capito. Ho capito che, fino a quel momento, avevo soltanto intuito me stessa. Mi guardavo, da anni, come dietro un vetro appannato che sfuma i contorni, e rimpicciolisce i dettagli. Ma vedersi, vedersi davvero, mettere a fuoco sé stessi … quella è tutta un’altra storia, signori.
Significa imparare l’indulgenza e per questo amare, e perdonare, la donna che eri un tempo. Quella che camminava per strada vestita di sbagli, e pezze a colori, ed etichette affibbiate da qualcuno – chissà quando, chissà perché – e conti mai saldati, e fallimenti ammantati di sforzo, e di tenacia.
Quella stessa donna che poi – con un mano che non era più il solito pugno chiuso, ma dita tese e protese verso l’avanti – ho salutato con affetto, e con un pizzico di malinconia.
Da lontano, le ho sussurrato: “MI dispiace. Mi dispiace perché non ho saputo volerti bene abbastanza da preservarti la dignità, ed evitarti inutili dolori. Ora sei libera, ti lascio libera”.
E lei se n’è andata. Col suo carico di ieri, e di domani mai arrivati. Eppure leggera, ed impalpabile. Mi ha guardata negli occhi un’ultima volta e, con tenerezza, mi ha detto: “Non ti serbo alcun rancore. Ci siamo tenute compagnia tanto, e tanto a lungo, in quelle mattine senza entusiasmo, e nelle notti faticose, eternamente uguali a loro stesse. Ma nulla è più certo del cambiamento. E allora cambia. Sii il meglio di ciò che puoi essere”.
Non dimenticherò mai la donna che ero. Ne proietto l’immagine attraverso il filtro degli occhi. E’ stata la speranza che si traduce in volontà. La volontà che anima il muscolo. Il muscolo che diventa azione. L’azione che sfida la paura, e mette in moto la trasformazione.
Ma, salutando lei, ho dato il benvenuto ad un’altra donna. Una donna diversa, non più così fragile, ma non ancora forte. Solo un po’ più vera, un po’ più serena. Quasi in pace.
E’ una cosa strana quando l’infinità del cielo ti entra dentro. Da quell’istante in avanti, non sei più uguale.