I pesci non chiudono gli occhi, di Erri De Luca: perché il mondo merita di essere visto

2 Maggio 2012
Antonia Storace
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I-pesci-non-chiudono-gli-occhiAccadde, per la prima volta, nel 2009. Fui attratta da una frase stampata, in grassetto, sul retro lucido, e liscio al tatto, di copertina.

Recitava così:

– “Sono cose che succedono il giorno prima.”

– “Il giorno prima di che?”

– “Il giorno prima della felicità.”

Il giorno prima della felicità succedono cose che non potrebbero accadere in nessun altro giorno.

E’ un giorno speciale quello. Mica come tutti gli altri.

Fu il primo, dei suoi tanti libri, in cui la mia vita è inciampata nel corso degli anni.

Ho scoperto tardi la sua arte, la sua penna, il suono liquido delle sue parole, la loro forza quando si combinano insieme. Perché le cose belle sono lente. E si lasciano aspettare.

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Erri De Luca nasce nella mia terra – a Napoli – negli anni 50. Sono anni difficili, figli di una guerra appena conclusa che è – insieme – madre, ed aguzzina. Sono anni di cambiamenti radicali, e necessari. Il Parlamento italiano approva l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno e dell’ IRI, per gestire le partecipazioni statali; il governo vara la legge Vanoni, che introduce l’obbligo della dichiarazione dei redditi, la legge Segni per la riforma agraria, e la nuova legge elettorale, prontamente ribattezzata dall’opposizione “legge truffa”. Ma sono anche gli anni in cui Nilla Pizzi vince la prima edizione del Festival di Sanremo, Domenico Modugno canta “Nel blu dipinto di blu”, e Fausto Coppi si piazza primo al Tour de France. Fiori all’occhiello di un’Italia che si scrolla di dosso la polvere delle macerie, e della sconfitta morale, e si rimette in piedi, con quel poco di dignità che ancora le resta.

Altro libro. Altra copertina. Pure questa lucida – che ti ci puoi specchiare – e liscia al tatto, come una carezza.

Stavolta, la frase recita così: “Il mio corpo non mi sta a cuore, e non mi piace. E’ infantile, e io non sono più così. Lo so da un anno, io cresco e il corpo no. Rimane indietro. Perciò pure se si rompe, non importa. Anzi, se si rompe, da lì dovrà venire fuori il corpo nuovo.”

I pesci non chiudono gli occhi. Mai. Neppure quando baciano. Per non perdersi nulla, non un solo frammento di quel mondo sul quale lo sguardo dell’uomo si posa appena – sfiorandolo – e poi passa, distratto. Incapace di coglierne l’autentica bellezza.

Dovremmo tutti imparare dai pesci.

A dieci anni, per la prima volta, puoi scrivere la tua età a cifra doppia. E’ un traguardo importante, il momento perfetto in cui aggiungi lo zero accanto all’uno. Somiglia ad una coppia di innamorati.

E questo ti fa grande nella testa, ma ancora piccino nel corpo. Un corpo di bambino che cessa, improvvisamente, di rappresentarti, perché il Te “di dentro” non corrisponde più a quello “di fuori”. Si guardano, i due. Ma non si riconosco. E così, finisce che te lo trascini appresso, quel corpo, come una zavorra che ti rallenta il passo, ed impedisce la corsa, in attesa che il bozzolo si schiuda e nasca l’uomo nella sua interezza.

A dieci anni, su un’isola del Tirreno, tieni – nella tua – la mano di una ragazzina. Ed allora, impari l’incanto, la forza, il senso profondo del verbo “mantenere”. E’ un bel verbo, “mantenere”. Il tuo preferito. Assomiglia ad amare, nella sua declinazione all’infinito. Ma l’amore non è un punto di ristoro per i paurosi, e neppure una culla materna per gli inconsapevoli. “E’ pericoloso, ci scappano le ferite, e poi per la giustizia altre ferite. Non è una serenata al balcone, somiglia ad una mareggiata di libeccio, strapazza il mare sopra, e sotto lo rimescola”.

L’amore non è per i deboli di cuore.

A dieci anni, dormi sotto i castelli di libri di tuo padre e, con quelli, impari a conoscere il mondo degli adulti dall’interno. Quella strana ipocrisia al contrario che li fa grandi fuori, e piccoli dentro. A dieci anni, gli adulti sono la tua perfetta antitesi.

E ti scuote tutto quel senso di giustizia che inizia a farsi strada nei tuoi occhi di bambino. Che del mondo, forse, non ci hai capito ancora molto, ma non ti sembra poi così difficile distringuere ciò che giusto, da ciò che giusto proprio non sembra.

Erri De Luca ti trascina, con dolcezza ineluttabile, in quelle storie che sono storie di vita, storie di tutti. Ed ogni pagina ti fa sperare, ardentemente, che ce ne sia un’altra, a seguire. Perché quando arrivi all’ultima riga di un libro, un po’ di malinconia ti piglia. E ti fotte.

E’ come salutare un caro amico, vederlo partire per un lungo viaggio, sapere che altri occhi, ed altre mani, lo sfioreranno. Eppure, lasciarlo andare con un sorriso che sa di “ci rivedremo presto”, e con le labbra mimare un silenzioso: grazie.

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