Quando diciamo «ti voglio bene»

3 Dicembre 2014
Redazione YOUng
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ti voglio bene                In amore, c’è poco da fare, esistono sostanzialmente due categorie di persone: ci sono quelli che scappano… e quelli che rincorrono. Dal canto mio, sono un rincorritore professionista, da prestazione olimpica, da primato mondiale (sarà colpa mia: non so scappare, non ci posso fare niente). Certo, rincorrere ha i suoi limiti… almeno quanto fuggire. Però, da rincorritore o fuggitivo del caso, lo stop arriva quasi sempre intorno ad una espressione che, se onesta e sincera, può smuovere o fermare anche le montagne. Solo tre parole: «ti voglio bene».

Tre parole e tanto peso. Un peso immenso, infinito. Tre parole da usare con cura, da rispettare, da non bistrattare, sfruttare, usare come parole al vento. Tre parole che danno il peso, la foggia e la misura di quanto c’è stato e quanto ci sarà.

«Ti voglio bene» è un’espressione dal significato tremendamente profondo. E, spesso, siamo portati a verificare la portata, la massa di questa espressione. Ci facciamo i conti, andiamo a scavare, a ragionare sul fatto e sul detto. Vogliamo verificare quanto di quel «ti voglio bene» è, effettivamente, tale. Non è una questione di mancata fiducia. È un bisogno naturale. Per questo, a quella frase, ci si ferma… rincorritori o fuggitivi del caso. Ci si ferma, se non altro, per misurare quella portata e scegliere se cambiare senso di marcia o continuare, la fuga o la rincorsa, nella stessa direzione.

Non critico chi vuole verifiche il bene che si esprime. Non ce lo neghiamo… lo facciamo tutti. Dire «ti voglio bene» non è dire «sei carina/o», «sei interessante», «sei simpatica/o». È tutta un’altra storia. È una questione di responsabilità, di coscienza, di profondo rispetto e sensibilità. Il bene, magari, non si vede, non si comprende… ma c’è. E se c’è, prima o poi, sale a galla, non può nascondersi per sempre.

Se io dico «ti voglio bene» vuol dire che «io voglio il tuo bene». Il bene tuo, non il mio. Un bene che ha a che fare con te, con la tua vita, con i tuoi modi, i tuoi pensieri, i tuoi gesti, i tuoi sogni le tue aspirazioni. Il tuo bene non lo posso immaginare e costruire su quel che credo sia il-tuo-bene. Se ti voglio bene, allora, ascolto, provo a capire, chiedo, mi propongo di conoscerti. Soprattutto, vado a fondo: non mi fermo all’evidenza. Se «ti voglio bene», allora, sono pronto a darmi da fare per provare a costruire quello che tu sai che può farti bene. Oppure combatto, se ne sono veramente sicuro, per darti un bene «controcorrente», un bene vero, oggettivo, sincero che, magari, non è il bene, matto o disperato o malato, che tu vuoi.

Allo stesso modo, va calibrato e capito il bene che si riceve. Il bene non è un’imposizione, non è un ordine, una presa di posizione a priori che condiziona, chiude, blinda una vita in un binario di libertà che, in fondo, libertà non è. «Ti voglio bene» è «ti voglio libera/a», «ti voglio felice», «ti voglio così come sei». «Ti voglio così come vuoi»… come vuoi tu e non come voglio io.

Per dire «ti voglio bene» ci vuole coraggio. Un coraggio doppio. C’è il coraggio di esporsi, di mettersi in gioco, di non tirarsi indietro anzi tempo, di intraprendere una missione rischiosa. Una missione giocata non solo sulla nostra pelle ma, anche e soprattutto, sulla pelle altrui. E c’è anche il coraggio di mettersi da parte, se non dovesse essere quello il bene che, realmente, l’altro vuole. Perché se ti-voglio-bene, allora ti voglio bene sempre e comunque. Anche a chilometri di distanza, anche se per te posso solo pregare, anche se tu non lo vuoi il mio voler bene. Ti voglio bene anche se non esisto più, quando il mio bene diventa strumento e missione per altri. Ti voglio bene anche se mi dici «no». E, allora, devo esser pronto ad accettare che, nel tuo bene, io potrei anche non esistere.

Spesso la corsa, quella tra rincorritore e fuggitivo, diventa a senso unico. Il voler bene si disperde, diventa una tensione fine a sé stessa. Non c’è bene che tenga, c’è chi gioca col bene. E non è detto che, chi fugga avanti, abbia sempre torto. Allora, qualunque sia il caso, il primo «ti voglio bene» va detto a noi stessi. È una presa di coscienza, un atto dovuto. Voler bene è una responsabilità fatta al cospetto del nostro cuore, non è solo una disponibilità di cura verso il complemento oggetto del nostro bene.

Se ti voglio bene e sono disposto ad inseguirti, allora devo voler bene a me stesso, devo sapermi difendere, devo saper custodire quello che sono per potermi permettere il gesto di bene. Al contempo, devo essere pronto a riconoscere un bene che bene non è. «Ti voglio bene» non è un’espressione campata in aria… io ti voglio bene. Se accetto la corsa, allora accetto di correre. Se accetto di giocare, allora accetto le regole. Se accetto il voler bene, allora voglio bene.

Qualunque sia l’amore, la ricorsa e la fuga, c’è sempre una strada da fare. Ed, anche se in due, le gambe sono sempre e solo di chi corre.

L'AUTORE
La redazione di YOUng
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