Capire Aristotele
Il pensiero di Aristotele nasce all’ombra del maestro, Platone. Non dovremmo ridurlo così, tuttavia è impossibile fare a meno di notare quanto sia stata proficua la sua eredità, seppur in parte messa a congedo dallo Stagiritta.
Un altro elemento di non poco conto è la rivalità tra l’Accademia e la scuola retorica di Isocrate, che il nostro filosofo bolla di fatto come uno “scribacchino”. Possiamo quindi notare man mano che studiamo Aristotele dei punti di incontro e di progressivo allontanamento dagli insegnamenti platonici. Pensiamo alla Teoria delle Idee, che il filosofo critica, proponendo le sue categorie. È qui che si sente maggiormente la scissione tra i due pensieri. Per Platone ogni cosa è emanazione di una idea corrispondente nell’Iperuranio; non di meno, fa notare lo Stagiritta, in questo modo ogni volta che dobbiamo riconoscere un oggetto, si presentano dei problemi che mandano all’aria questo ragionamento: Ogni cosa necessita di definizioni (idee) che a loro volta non si reggono da sole, necessitano bensì di altre definizioni, eccetera; un regresso all’infinito. Non si può quindi avere un approccio basato meramente sui particolari, bensì, occorre volgere lo sguardo all’universale.
“Sostanza”, “qualità”, “quantità” e “relazione” sono le principali categorie, con le quali siamo in grado di riconoscere le cose. Soprattutto la sostanza investe un ruolo non indifferente nel pensiero aristotelico. Nella sua metafisica sostiene che «l’essere si dice in molti modi», ciò che ci permette di riconoscere una pietra tra tante è la sua sostanza. Il suo pensiero arriva in Europa (o meglio torna) con gli arabi ed è di ispirazione a pensatori del calibro di San Tommaso eDuns Scoto, in particolare per quanto riguarda il problema degli universali. Oltre Dio – concetto risolutivo di molti fenomeni allora inspiegabili – il dibattito verteva attorno ai termini di genere e specie. Ci si chiedeva quale fosse stata la natura dei concetti e se questi venissero prima o dopo le cose. Gli scolastici platonico-agostiniani, consideravano gli universali come esistenti nella mente di Dio – loro si definivano per questo realisti. I nominalisti invece, ritenevano che gli universali fossero delle convenzioni, ovvero, segni che ogni cultura o comunità stabilisce per indicare le cose. Una posizione squisitamente “aristotelica”.
Con il suo Organon getta le basi della Logica, che si lega per forza di cose al concetto di logos. Questa si può riassumere in tre aspetti: lo studio delle categorie, i sillogismi e la conoscenza scientifica. Per quanto riguarda le categorie, il filosofo distingue gli oggetti in omonimi (stesso nome, diversa definizione; per es. l’oggetto in sé e l’oggetto rappresentato in un quadro, come la pipa di Magritte); sinonimi (nome e definizione identica, per es. uomini e cani sono entrambi animali; questo era già noto ad Aristotele, se non prima) e paronimi (un nome che deriva da un altro; per es. informatico deriva da informatica). Ecco quindi che l’interesse principale sta nel bisogno di mettere ordine nei termini linguistici; nel logos. Si passa poi all’analisi dei gruppi di concetti organizzati in frasi e proposizioni; dove le prime sono combinazioni di parole dotate di senso, mentre le seconde sono composte da soggetto e predicato. Abbiamo poi i noti sillogismi.
Ora, tutte le forme di sapere procedono da un sapere già esistente, per approdare a degli assiomi, concetti oltre i quali per convenzione non è dato scavare, perché ogni affermazione deve essere dimostrata da altre, che a sua volta vanno dimostrate, ecc., all’infinito. Gli assiomi sono punti basilari sui quali siamo tutti d’accordo, se non altro perché sarebbe stupido non farlo; come per esempio il principio aristotelico delterzo escluso: una cosa è vera o falsa, non esiste una terza possibilità. Se ammettiamo che possa piovere e non piovere in uno stesso tempo e luogo, allora dalla teoretica sconfiniamo verso la demenza. Gli assiomi sono ipotesi comunemente accettate da cui partiamo per definire nuove ipotesi che se verificate ce ne fanno definire altre, eccetera.
Aristotele coi suoi Assiomi dell’Essere (Metafisica, Libro IV) afferma due punti base – assiomi appunto – ovvero, ilprincipio di non contraddizione; ed il principio del terzo escluso. Da una parte il mondo di Eraclito, dall’altra quello di Parmenide. Il filosofo ci offre una prima sistematizzazione della metafisica. I contributi più importanti di questo sistema sono i sillogismi, i quantificatori e le modalità. Un sillogismo prevede una premessa maggiore, una minore ed una conclusione. Per es.: «Tutti gli uomini sono mortali | Socrate è un uomo | Socrate è mortale». Di tutti quelli che Aristotele studierà egli ne evince uno di base – detto in barbara – ed è rappresentabile così:
A ->B & B->C = A->C
Se da “A” deriva “B” e da “B” deriva “C” allora possiamo dire che da “A” deriva “C” ne è la proposizione equivalente. I quantificatori logici si dividono in universali (tutti, nessuno) e particolari (qualcuno, non tutti) che sono complementari alle modalità: apodittiche (necessario, impossibile) e problematiche (possibile, contingente). Sono contributi talmente importanti, che bisognerà aspettare Goedel per trovare di meglio.
Ciò che invece avvicina maestro è allievo è il concetto di “immortalità dell’anima”. Esisterebbe, secondo il nostro filosofo, una natura «sostanziale» e «immateriale» del «intelletto attivo», con tanto di ammissione della sua preesistenza attiva. Si torna così alla definizione platonica di «vita malattia dell’anima», inseparabile dal corpo in vita. Come abbiamo visto nell’articolo precedente (cfr. “Capire Platone”) non si fa alcuna differenza tra anima e intelletto; ecco quindi che la Filosofia, secondo Aristotele, merita di essere coltivata, perché desiderabile. «Rende felici». Del resto la negazione del filosofare è essa stessa una filosofia. Dunque è inevitabile per chiunque sia in grado di pensare. La Filosofia è «acquisto e uso della sapienza» (A., De Philosophia) mediante la “regola” del «giusto mezzo». E’ la virtù che sta nel mezzo – non la verità – con buona pace di chi continua a usare citazioni a caso. «La sovrabbondanza genera prepotenza e l’assenza d’educazione congiunta con molti mezzi genera insania». (A., Protreptico)
Sebbene l’approccio dialettico derivi dai dialoghi del maestro, questi ultimi vengono attaccati senza pietà, specialmente quando si tratta di esplorare il mondo delle idee. Tre sono i principali argomenti che lo Stagiritta presenta contro l’Iperuranio: L’omonimia; l’inseparabilità delle idee, proprio perché da sole non sono affatto indipendenti, ma ne contengono altre; infine definisce una «assurdità» la definizione, comune in Pitagora e Platone, delle idee come numeri. Insomma, se la Filosofia è ricerca dei principi, questi non sono separati. Che si parli di Demiurgo, divino o Dio cosmico, sempre ci troviamo di fronte ad una unità universale che mette a congedo il punto di vista particolarista di Platone.
Oggi verrebbe definito “bottom-up”, mentre il metodo di Aristotele si potrebbe definire “up-down”; se nessuno pretende di avere la verità in tasca scopriamo che, non solo sono entrambi validi, ma addirittura si compensano.
Il divino di aristotele non è altro che l’ordine del mondo. Spinoza vi troverà il “suo” Dio. La Fisica stessa – qualsiasi scienza – non è altro, quindi, che una ricerca del divino. Tutto questo non è detto che sia entusiasmante, come farà notare Nietzsche con la metafora dell’abisso: a furia di guardarne il fondo prima o poi sarà lui a guardare dentro di te; ma così stiamo divagando.
ETICA
Tornando a bomba, l’eterno mondo-Dio aristotelico, ingenerato non creato, della stessa sostanza dell’Universo ci ricorda “qualcosa” e porta inevitabilmente a misurare il valore etico del piacere. Esisteva già una disputa attorno a questo argomento, tra Edonisti e anti-edonisti. Dopo, Epicurei e Stoici prenderanno il testimone di questa contesa, ognuno tentando di trascinare i testi aristotelici a vantaggio delle proprie tesi. Non sapremo mai come la pensasse realmente Aristotele; un po’ perché molti suoi testi sono andati perduti, mediati tramite opere di altri diversi secoli dopo la sua morte; un po’ perché probabilmente non era affatto interessato a prendere una posizione in merito. Il punto infatti non era il piacere, se condannarlo o promuoverlo, quanto il sommo bene, ovvero, la felicità; non è detto che questa non possa essere raggiunta anche attraverso il piacere.
Trattasi per esteso di sommo bene umano. Non c’entra niente col godimento o con la ricchezza. È espressa dalle virtù, che sono il bene dell’anima. Buona salute e bell’aspetto aiutano, ecco quindi che non possiamo negare il piacere a priori; «impossibile e difficile compiere opere belle quando si è sprovvisti di mezzi». Il sommo bene è anche il fine ultimo, dunque la Politica assume in Aristotele un ruolo importante, in quanto scienza del fine ultimo. Essa riguarda i modi di vita associata ed implica il «dover essere».
Torniamo quindi al concetto di virtù, considerata «eccellenza dell’anima». Lo stato etico dipende dalle azioni virtuose che lo fanno maturare, sono «abiti dell’anima». La virtù si evince dall’osservazione del “giusto mezzo”, ovvero nella medietà: né troppo né troppo poco. Ecco perché il piacere in sé non è il problema, quanto la misura con cui ci si dedica e lo si vive. Concetto più vicino agli epicureisti che non agli stoici, stando alle povere fonti di cui disponiamo. Infine la virtù della ragione pratica non può che essere la saggezza. Questo ci avvicina più agli stoici che agli epicureisti, ragione per cui entrambi continuarono a polemizzare su posizioni che – a nostro avviso – si compensavano a vicenda.
«L’uomo per natura è un vivente politico».
Vivere “assieme” è il nostro “essere”. La felicità è dunque il piacere di vivere insieme. La comunità politica è la nostra forma di vita. Il suo fine è garantirci felicità e bellezza; non soltanto l’esistenza: quella è la forma di vita degli altri esseri viventi. La comunità ci permette di compensare le nostre mancanze vicendevolmente «Dio è felice perché riesce a bastarsi»; qualcuno direbbe «da ognuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni», ma è un’altra storia – ben diversa da quella secondo cui ognuno interagisce secondo i propri egoistici interessi contro quelli altrui, prestando affidamento ad una «mano invisibile» che riuscirebbe a porvi ordine e pubblici vantaggi – se è vero, come effettivamente è stato, che Aristotele espresse posizioni nettamente a favore della monarchia (ricordiamo il suo ruolo di maestro del giovane Alessandro Magno) non possiamo fare a meno di ricordare quanto affermò riguardo la forma di comunità basata sulla fratellanza, ovvero la Timocrazia:
«I cittadini vogliono essere uguali e virtuosi. Pertanto si comanda a turno e in ugual misura».
Tutte le forme di stato possibili, secondo Aristotele, rispecchiano forme più semplici di rapporti sociali: padrone/schiavo; marito/moglie; padre/figli; le quali dipendevano dal tipo di economia dominante e dai valori etici delle varie comunità. Lo stato quindi è una istituzione etica, quest’ultima viene vista dallo Stagiritta come «parte e principio della Politica». In quest’ottica la praxi riveste un ruolo importante, non è sufficiente infatti «conoscere ogni singola cosa, ma piuttosto il contemplarla … neppure quel che concerne la virtù è sufficiente il conoscere, ma bisogna cercare di possederla e di praticarla». Vivere, non solo studiare, mettersi in gioco, partecipare, sono tutti strumenti importanti del filosofo, indispensabili per la saggezza.
La Crematistica, parte fondamentale dell’economia domestica, gioca un ruolo importante nella comunità e quindi nello sviluppo di uno Stato. Nella buona crematistica il denaro è un mezzo per ottenere nuove merci vendendo quelle di partenza (MDM); nella cattiva crematistica, invece, il denaro diviene fine a se stesso in quanto mezzo per ottenerne altro (DMD) una “perversione economica” che sarà ampiamente studiata e sottoposta a critica negli scritti di Marx, specialmente nel suo Capitale. Il baratto, forma ancestrale dell’economia, è secondo Aristotele, una buona crematistica; le merci però sono soggette a usura nel tempo e non è detto che i miei prodotti di scambio piacciano a tutti o che possano essere facilmente trasportabili, così col tempo si è affermata la moneta, ovvero una merce di scambio universalmente conosciuta, difficilmente logorabile e facilmente trasportabile; il conio delle monete nasce dall’esigenza di non doverle ogni volta pesare; tutt’oggi i nomi di molte valute (dollaro, lira, sterlina, ecc.) derivano da unità di misura utilizzate in passato per pesare anche le monete. Il denaro può portare alla cattiva crematistica, grazie alla facilità con cui si può “slittare” dalla formula “MDM” a quella “DMD”. Poter ottenere nuove merci, che rappresentano una certa utilità, viene in contro alla natura umana, mentre l’accumulo illimitato di denaro, oltre ad andare contro il giusto mezzo è senz’altro contro la nostra natura.
DIALETTICA ANARCO-MARXISTA TRA I RISPETTIVI ESTIMATORI DI ARISTOTELE E PLATONE
Tutto questo prescinde dalla negazione della proprietà e della famiglia, come invece avviene nel pensiero di Platone, per un motivo non indifferente, che avvicina Aristotele agli anarchici più di quanto non faccia il maestro, che pure li ha ispirati:
«Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno … gli uomini badano soprattutto a quel ch’è proprietà loro … E’ meglio … che la proprietà sia privata, ma comune nell’uso».
La messa in comune dell’uso delle nostre proprietà ricorda i principi di “proprietà estesa” e “collettivizzazione” tanto cari a Proudhon, che pure preferiva Platone. Curioso – ma non illogico – che Hegel e Marx si ispirassero decisamente più allo Stagiritta. Forse è il concetto di “Stato” che mette un po’ di confusione. Ricordiamo, una volta per tutte, che un conto è lo “stato etico” di Aristotele un altro lo “stato contrattualistico” degli illuministi. Oggi noi conosciamo solo il secondo e per comodità quando critichiamo lo stato ci riferiamo a quello.
Cosa vuol dire essere virtuosi?
Per quanto fino al suo maestro – Platone – ci si fosse sforzati di trovare i fondamenti di una scienza etica, una epistéme dell’agire in comunità, Aristotele non è affatto convinto che le cose stiano così, ovvero che la soluzione si potesse trovare attraverso un metodo geometrico-matematico. Ciò che detta il mio agire è sempre in fondo la situazione in cui si compie. Ed è pieno il Mondo di persone che hanno vissuto il nostro tempo, trovandosi ogni volta in determinate situazioni, che ponevano dei problemi e la consultazione di altri nel trovare delle soluzioni. Così nel pensiero del filosofo dell’Etica Nicomachea, si da grande importanza al “luogo comune”, al “si da il caso”. Lo stesso concetto di “bene” in Aristotele non potrà risiedere meramente nella Giustizia; non è detto che l’armonia del sistema giovi alla mia persona, o alla comunità. Pensiamo a Socrate, esaltato nelle opere di Platone per il suo estremo gesto di bere la cicuta; avrebbe potuto scegliere l’esilio o fuggire, invece accetta la condanna per non venire meno all’ordine del sistema. Quindi è stato un bene la condanna di Socrate?
Il bene ha sempre significati diversi a seconda delle “categorie” considerate. Abbiamo in generale sempre una disputa tra la Natura e le convenzioni sociali; nella Grecia classica l’apollineo (ordine e leggi) è una esigenza della città-stato che deve tenere a bada lo spirito dionisiaco (istinti primordiali). In questa disputa vincerà sempre quello che più si avvicina al raggiungimento della felicità. E’ la felicità il sommo bene. La ricerca di questa sarà sempre la persecuzione di determinati fini; Aristotele distingue tra fini ricercati, che servono per compiere i fini in sé, i quali a loro volta vengono perseguiti per ottenere nient’altro che quelli: Piacere, onore e contemplazione sono quindi la fonte della felicità, ovvero il sommo bene. Sono necessari a tal fine i beni dell’anima e del corpo. Potremmo dire che, secondo Aristotele, il fine della felicità “giustifica” i mezzi spirituali e fisici. La felicità dunque è sempre attiva, non è una mera disposizione mentale. Non di meno, evidentemente, non possiamo utilizzare qualsiasi mezzo, ci servirà un metodo per capire come comportarci per avvicinarci sul serio al fine della felicità.
Occorre essere virtuosi. Aristotele distingue due categorie di virtù: Quelle intellettuali, che comportano la possibilità di essere insegnate e quelle morali, che si possono acquisire soltanto con l’abitudine, con la prassi. Il filosofo recupera così la dottrina delfica del “giusto mezzo”, che effettivamente caratterizzava il senso comune della polis prima che avvenisse l’apoteosi ed il declino della Atene imperiale, la quale lascia agli ultimi pensatori greci un mondo di eccessi e meschinità. Occorre, secondo il filosofo, tenere ben presente la relatività del mezzo; le circostanze determinano infatti la ragione. Uno degli errori che Aristotele coglie in Platone è il suo andare troppo verso il generale (il bene di molti è più importante del bene di pochi, o di uno, direbbe Spock) e di non poter considerare in questo modo le eccezioni, che quanto più si va verso il generale, sono tutt’altro che la conferma di una regola, bensì dell’impossibilità di ridurre gli esseri umani a mere formiche; noi siamo mossi dalla felicità, non dall’armonia del sistema. Questo pone anche un altro problema; quello che Edgar Morin definirà “ecologia dell’azione”. Quando noi compiamo una scelta ci prendiamo anche una responsabilità, compiamo una scommessa, in quanto non è detto che il nostro agire produca cosa buone, potrebbe anche creare nuovi problemi. Ecco quindi che Aristotele non si limita solo a ridimensionare il senso del sacrificio di Socrate all’ordine della polis; anche il principio secondo il quale tutti agiamo volendo compiere il bene, mai pensando deliberatamente di agire per il male, infatti Aristotele ci chiede: «Se nessuno compie il male deliberatamente che merito avrebbe per il suo agire virtuoso?». Se è vero che da un lato abbiamo il limite dell’ignoranza a cui contrapponiamo la virtù intellettuale, dall’altra abbiamo anche quello dell’autocontrollo a cui contrapponiamo l’assumerci le nostre responsabilità. Se non siamo responsabili viene meno il giusto mezzo, tra il troppo ed il troppo poco. A proposito, la lunghezza del testo comincia ad essere poco virtuosa, fermiamoci qui.
Bibliografia essenziale
Per tutti quelli che si chiedono: “Questo che caspita scrive”?
Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, 1973
Aristotele, Grande etica – Etica Eudemia, Laterza, 1988
Diotti, La civiltà greca, DeAgostini, 2000
Galli, Manuale di storia del pensiero politico, il Mulino, 2011
Ferraris, Socrate, Platone, Aristotele e la Scuola di Atene, Repubblica, 2011
Goeffrey E. R. Lloyd, Aristotele, ilMulino, 1985
Gunter Bien, La filosofia politica di Aristotele, il Mulino, 1985
Severino, La Filosofia dai Greci al Nostro Tempo, BUR, 1996
Vigetti, L’etica degli antichi, Laterza, 1989