Il grande inganno della laurea di massa: tutti dottori, tutti disoccupati!
Tutto il senso del mio non brevissimo editoriale potrebbe sintetizzarsi in questo dato: nel Sud Italia la percentuale di laureati è maggiore rispetto a quella di chi lavora. Nel resto del paese si sta tentando di adeguarsi a questo sconcertante dato: flottiglie di futuri studenti confusi si riversano in massa negli atenei convinti che, diventare dottori in qualcosa, significhi procurarsi un attestato di “alta cultura” e di prestigio sociale maggiore. Ovvio che per certi (sempre meno) atenei sia effettivamente così: provate a laurearvi alla Normale di Pisa se non siete dotati intellettivamente e non avete, fin da giovani, un cervello più sviluppato della media. Il problema però riguarda tutto il resto; la cosiddetta “maggioranza”.
Ecco: la massa di studenti confusi, mi spiace dirlo, ma è solo carne da macello che serve ad alimentare un sistema di mercimonio para-culturale e, al contempo, di omologazione esistenziale.
Parliamo di una coltre di individui che vengono indirizzati verso un tipo d’apprendimento nozionistico e standard, organizzato sul modello della catena di montaggio. Un modello che andava bene, forse, nel 1900 ma che è incredibilmente limitante ed in alcuni casi addirittura penalizzante nella frenetica e dinamica società attuale. Dei cosiddetti “diplomifici” si è parlato tanto e, purtroppo, sulla coscienza collettiva gli effetti sono stati piuttosto miti. Sempre più persone riescono a realizzarsi e guadagnare il giusto solo perché hanno rotto gli schemi del pensare ed agire comune. Sono riuscite ad andare oltre etichette, provincialismi, classismi e complessi d’inferiorità.
Eppure, nonostante tutto ed il chiaro evolversi delle modalità d’apprendimento collettivo, nessun ragionamento di reale rottura rivoluzionaria è stato avanzato e, i docenti universitari che hanno denunciato il rovinoso fenomeno dell’inflazione accademica, vengono per lo più ignorati dagli stessi genitori bigotti che impongono ai propri figli l’iscrizione ai corsi di laurea più assurdi.
Poi ci si laurea a 28 anni ad una triennaletta patetica e si prepara anche la consueta “festa” con tanto di torta. Ma per cosa si festeggia? Per aver letto e ripetuto le nozioni contenute in una ventina di libri? Magari sperando che il prof o l’assistente quel giorno non si sia svegliato male? Molte, troppe volte mi è capitato di fare selezione del personale con individui che si presentavano così: ”Mi chiamo Tizio, ho tot anni e sono laureato in…”. E poi? Interessi? Hobby? Letture? Esperienza pregressa? Ambizioni? Le risposte erano banalità totali ed in alcuni casi un vuoto intellettuale desolante. E’ innegabile: un numero impressionante di “dottori”, nella propria vita, ha letto solo i libri necessari per conseguire il titolo. Molti altri hanno letto quei libri e pochi altri.
Ma perché succede questo? Perché si è voluto trasformare la laurea da opportunità di crescita intellettuale e di elevazione sociale a triste e meccanico obbligo formale? Ci volevano più colti? Più preparati? Ovviamente no: altrimenti non si sarebbero semplificati programmi e corsi di studio per renderli accessibili anche agli imbecilli; altrimenti non si sarebbero dati più “punti” agli atenei che sfornavano più titolati. “La cultura per le masse è un’idiozia” diceva qualcuno. Io penso che convincere il popolino di poter possedere una grande erudizione in maniera semplice e veloce rappresenti un truffa ordita da chi ha un interesse preciso: creare una società complessata ed illusa che ha un bisogno isterico di titoli ed attestatini per riconoscersi.
Perché nessuno, “dall’alto”, ci informa di una cosa banalissima: per fare bene l’80% dei mestieri e vivere felici e soddisfatti non serve una laurea. Non serve indebitarsi ed esaurirsi per poi ritrovarsi a mandare CV e sperare nell’’assunzione in un supermercato. Chi è bravo e dotato con il titolo ha una marcia in più, chi è meno portato per lo studio ma ha grandi doti pragmatiche o magari artistico-creative viene invece umiliato ed emarginato; trattato come un reietto. Perché? Perchè devono spingerci a rientrare in determinati binari; binari che portano il valore del titolo di laurea sempre più in basso.
Ultima considerazione: ma siamo così sicuri che gli unici luoghi di cultura siano le Università? E cos’è sul serio la cultura se non ciò che ci ricordiamo dopo aver dimenticato tutto il resto? Come possiamo far crescere il nostro sapere? Leggendo libri imposti da un programma di studio rigido e che prevede tempi d’assimilazione rapida e zero analisi critica? Mi verrebbe da rispondere con un secco no. Eppure: provate a parlare male di certi percorsi accademici massificati e vedrete quanti insulti vi beccherete e quali reazioni risentite provocherete. Se non siete laureati vi accuseranno di essere “rosiconi”, se siete laureati vi diranno di essere “ipocriti” (mi è successo, giuro). I più “furbi” vi accuseranno addirittura di battervi contro la cultura. La verità triste, piaccia o no, è che la maggior parte della gente è troppo abituata a farsi dire cosa pensare e come vivere. C’è un bisogno disperato di punti di riferimento e di omologazione sociale. Ragionare da reali anticonformisti è faticoso e spesso doloroso.
L’AUSPICIO: UNA SOCIETA’ CHE SAPPIA ACCETTARE LA NON ECCEZIONALITA’
Ora, anche per non cadere a mia volta in contraddizione, io non pretendo che tutti sappiamo muoversi fuori dagli schemi, che tutti abbiano le idee chiare ed un giusta autoconsapevolezza. Anzi a me una società che si preoccupa di premiare solo le persone “dotate” mi fa spavento, mi ricorda il modello nazistoide che sterminava i meno fortunati o quello, cannibalista-indivualistico, del mondo occidentale. Spero solo che un numero più elevato di persone comprenda il tranello globale che stiamo subendo e si decida a proporre modelli alternativi di studio ed accrescimento intellettuale. Forme che siano più libere e meno votate alla demonizzazione degli errori ed alla rincorsa spasmodica dei titoli.
Soprattutto spero di poter vivere in una società che sappia accettare i propri limiti e liberarsi dal classismo strisciante e dalla discriminazione dei non professori.
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