Nel momento più vicino alla paura, il cuore batte forte, ed emerge la forza interiore
Mauro Calibani, 38 anni, è uno dei più famosi arrampicatori italiani, campione del mondo, all’età di 27 anni, di boulder, l’arrampicata su massi senza assicurazione. Niente corde, niente moschettoni, niente punti di ancoraggio precedentemente fissati. Solo il corpo e i suoi arti a sentire e trovare appigli invisibili agli occhi dei più. E’ una disciplina dove l’errore può essere fatale. Eppure i praticanti sono in continua ascesa, in tutto il mondo.
Mauro è anche il protagonista di una serie di cortometraggi, uno dei quali, “Pesce fritto da Pietro“, con una splendida regia di Rovero Impiglia e le sapienti riprese di Davide Zaccone, è risultato vincitore del Fluvione Corto Festival e Dintorni, alla fine di settembre.
Abbiamo cercato di capire, in questa conversazione, cosa spinge un uomo a confrontare la fragilità. e l’abilità di un corpo allenato, con le asperità di una roccia da scalare, dove il fallimento nella “distruzione della barriera”, può essere devastante.
– Parlando dei tuoi 20 anni, hai scritto “vivevo il mio corpo pienamente, sommergendolo nella natura, dove le meravigliose forme della roccia arenaria erano immerse” – E’ forse un tentativo si sentirsi in simbiosi con quella parte della natura che più di altre presenta caratteristiche di immutabilità e durata, fino a sentirsene parte?
– Si credo di si, io grazie alla scoperta di Meschia (una frazione di Roccafluvione – AP – a ridosso dei Monti Sibillini n.d.r.), e della scalata su arenaria e quindi al bouldering (scalata su massi senza corda su brevi ma difficilissimi tracciati), ho scoperto una parte di me che doveva venire fuori, ovvero la mia necessità di creare cose nuove su una roccia che di per se pare inavvicinabile perché spesso molto liscia.
L’arenaria essendo una roccia molto meno dura del calcare o del granito è più levigata e tondeggiante rispetto alle rocce più dure. Le sue rotondità obbligano lo scalatore a plasmarsi su di essa e a cercare dei metodi di salita spesso molto più complessi e difficili, in cui si devono stimolare tutti i sensi per arrivare alla risoluzione dei “problemi” o passaggi. ogni volta sempre nuovi.
Le sue forme mi hanno stregato e hanno acuito la mia sensibilità. Io “vedo”, la bellezza di ogni sasso e ne conosco approfonditamente i segreti. La roccia è piena di opere d’arte, e a me piace scoprirle, specialmente in posti nuovi dove io posso sfrenare il mio istinto creativo. Ogni linea è diversa dall’altra ed io ne ho create tante nei miei anni addietro, immensamente belle.
La roccia rimarrà lì e a me spetta renderla il più viva possibile scalandoci sopra e facendoci scalare tutti gli appassionati di questo sport.
Io ero fuso in essa, a cuore aperto, senza limiti mentali e confini, grazie a questo mio approccio sono diventato nel 2001 il primo campione del mondo di bouldering nella storia di questo sport.
– Cos’è la bellezza nella roccia?
– Ci sono rocce perfette, senza nemmeno una piccola imperfezione, sono sculture naturali, quando ho a che fare con questi pezzi di roccia mi sento un privilegiato. Non c’è bisogno per forza di pareti grandi per vedere le rocce più belle. La roccia è come un libro bello e complicato, che va letto ed interpretato nel migliore dei modi.
A me spetta il compito di muovermici sopra al meglio, interpretandone le sue forme, attraverso la mia esperienza e conoscenza accumulata con maniacale amore in 23 anni di full immersion “on the rocks”.
Io amo scalare perché credo di provare spesso le stesse sensazioni che prova un ballerino, quando si esprime in un’opera, e le più belle rocce sono il mio palcoscenico su cui esprimermi.
– E’ inevitabile notare come la disciplina che pratichi presenti caratteristiche di pericolosità più elevate rispetto tutte le altre. Senti dentro di te la volontà di sfidare la fragilità del corpo mettendoti alla prova nell’affrontare il rischio?
– La mia disciplina diventa pericolosa se si cominciano a superare i limiti di sicurezza. Normalmente è rischiosa come andare a giocare a pallone o a nuotare, l’importante è fare sempre le cose con i giusti criteri di sicurezza, legarsi con una buona corda, moschettonare tutti i punti di ancoraggio precedentemente fissati da persone esperte e farsi assicurare da un compagno fidato, ecco questa è l’arrampicata sportiva, ed il tasso d’incidenti è bassissimo, considerando che il numero dei praticanti è in continua crescita, e quasi mai letale.
Quando però si diventa scalatori espertissimi, possono scattare delle strane molle interiori che ci allontanano dalla sicurezza, e quando ci si avvicina a questi confini, allora il pericolo comincia a fare parte del gioco. L’alpinismo in montagna, la scalata trad con protezioni removibili, le solitarie senza corda su medie e grandi pareti, ma anche il bouldering su massi molto grandi, tutte queste pratiche rendono il gioco più pericoloso.
Il perché non lo so bene ma a volte il rischio mi fa sentire più felice. Mi è capitato di rischiare e nel momento più vicino alla paura per le conseguenze fisiche di una caduta dal passaggio che stavo per fare, nella testa ho sentito di essere vicino ad una grande possibilità di “fallire”, in quei momenti mi sento il cuore che sbatte forte dentro e che la mia forza interiore esce tutta fuori, io li chiamo 50 e 50, o la va o la spacca, so che è assurdo ma ogni tanto ho l’esigenza di provare queste emozioni, per fortuna non spessissimo. Ci sono climber immensamente bravi in questa pericolosissima specialità estrema, che rischiano di brutto, ed il problema è che lo fanno con costanza.
– Cosa provi quando perdi la presa su una parete e il corpo cade nel vuoto?
– In arrampicata volare fa parte del gioco, ma c’è una immensa differenza tra un volo in arrampicata sportiva o un volo in montagna o su medie pareti ma su protezioni removibili. In arrampiocata sportiva vengono posizionati dei chiodi ad alta tenuta sulla roccia, ed il materiale con cui ci si assicura è assolutamente testato e sicuro, per cui la paura del volo è inferiore, inoltre in arrampicata sportiva il volo fa parte del gioco. Se si vogliono superare i propri limiti, bisogna costantemente azzardare movimenti difficilissimi che aumentano le probabilita di caduta, poi tutto finisce sempre bene senza nessuna conseguenza, solo con un po’ di adrenalina dentro un’arrabbiatura per la non riuscita, in quanto la principale regola del gioco è di non cadere mai appendendosi alla corda.
In montagna su protezioni removibili se si cade c’è la grande paura che la protezione possa saltare via ed allora i giochi si fanno più seri e pericolosi. Io quando scalo sto semplicemente bene perché mi sento il padrone del mio corpo, in grado di fare cose uniche e speciali.
– Hai scritto: “Ogni giorno è stato dedicato alla distruzione di una nuova barriera, considerata impossibile fino a quel momento“. Mi hai ricordato alcuni percorsi della mia esperienza, tutta interiore, in cui nella disciplina yoga si sperimentano forme di indagine sempre più sottili, nuovi, come nuovi campi da dissodare ogni giorno. Cosa ne deriva, nella tua esperienza quotidiana: serenità? Una maggiore comunione con la natura? Una migliore capacità di relazione con il mondo, non solo naturale, che ti circonda?
– Ho avuto la fortuna di reinventare il bouldering quando in Italia era pressoché sconosciuto. Oggi anche grazie a me, e a Meschia, il bouldering è diventato una disciplina molto diffusa tra le masse di scalatori, questi hanno già il percorso scritto e devono solo applicare le nuove tecniche già conusciute da noi in precedenza, io queste tecniche le ho scoperte da solo, ed ho infranto delle barriere che fino a quel momento mi sembravano impossibili, sono stato un privilegiato per questo e grazie alla nostra arenaria il bouldering è successivamente esploso in tutta Italia e non solo.
Le barriere le ho infrante e superate grazie all’amore per questa disciplina ed alla mia sensibilità, convogliando tutte le mie energie verso obiettivi sempre più lontani ed apparentemente impossibili, grazie a questo ho costruito quello che sono ora.
In “Pesce fritto da Pietro“, il cortometraggio recente vincitore del Fluvione corto Festival e Dintorni, quando dopo l’arrampicata ti siedi di nuovo con il tuo taccuino nel rudere, dici: “E’ fatta. La ricerca riparte“. Come scegli le “vie” da aprire? In base al grado di difficoltà? Alla bellezza? A qualcosa che non conosci ancora?
La ricerca riparte sempre, perché io vivo cercando sempre, forse in maniera un po’ ossessiva, qualcosa di nuovo da fare, un pezzo di roccia nuovo su cui esprimere il meglio di me. Cio’ che mi cattura è la mia capacita’ di scegliere sempre il meglio per me, ed il meglio per me è il “bello” fatto di roccia.