Regolamento di Dublino: applicazione e critiche

7 Agosto 2015
Giulio Chinappi
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Rifugiati

In merito ad un nostro articolo sulle posizioni xenofobe del governo ungherese di destra guidato da Viktor Orbán (clicca qui per leggerlo), abbiamo letto alcuni commenti, sul sito e sui social network, che portavano a sostegno delle posizioni del premier magiaro il “Trattato di Dublino”, ed abbiamo dunque ritenuto opportuno scrivere un apposito articolo per meglio informare chi volesse continuare a parlare dell’argomento in modo più oculato. Un po’ come siamo stati costretti a fare qualche tempo fa con la Corte Europea di Strasburgo, quando ne spigammo il funzionamento e le competenze a chi voleva parlarne senza conoscere la materia in questione (clicca qui per leggere l’articolo).

Innanzi tutto, vale la pena precisare che il “Trattato di Dublino” non esiste: ciò a cui si riferiscono i nostri commentatori è in realtà il Regolamento di Dublino, redatto nella sua terza versione nell’anno 2013, e per questo oggi noto come Regolamento di Dublino III. Questo è stato pensato per rendere effettiva l’applicazione della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951, in quanto questa era stata pensata per dei singoli stati indipendenti e non per un organismo sovranazionale come l’Unione Europea. L’UE ha dunque pensato di redigere un regolamento – non esente da critiche, sia chiaro – per rendere poter rispettare la Convenzione da parte propria e da parte di tutti i ventotto stati che ne fanno parte.

Il nocciolo della questione sta nel fatto che il Regolamento di Dublino intende identificare rapidamente quale Paese è responsabile per una richiesta di asilo da parte di un rifugiato. Si è pensato dunque di rendere responsabile il primo Paese membro nel quale il richiedente venga a trovarsi, questo per evitare che una stessa persona faccia richiesta presso più governi nella speranza di vedersi accettato al più presto da almeno uno di questi. Il testo originale fu firmato a Dublino il 15 giugno 1990, ed entrò in vigore il 1° settembre 1997 con la ratifica di dodici Paesi, compresa l’Italia. Da notare che, oltre ai Paesi membri dell’UE (dai quali si esclude però la Danimarca), il regolamento è esteso anche ad Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein.

Detto questo vanno quindi notate alcune cose in risposta a coloro che avevano risposto in modo inadeguato al nostro articolo:
* il Regolamento di Dublino non autorizza in nessun modo un premier di un Paese, come l’ungherese Viktor Orbán, né tanto meno politici qualsiasi, a lanciare offese ed invettive a rifugiati ed immigrati, indipendentemente dalle posizioni politiche che un governo può assumere;
* il Regolamento di Dublino, rappresentando un’applicazione della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951, riguarda solo ed esclusivamente la situazione dei rifugiati e non di tutti gli immigrati, che non sono dunque tenuti a restare nel primo Paese membro dove arrivano;
* lo status di rifugiato, tanto per rinfrescare le memorie, può essere attribuito ad un individuo che “temendo a ragione di essere perseguitata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale Paese”, come recita il primo articolo della Convenzione di Ginevra;
* per coloro che conoscono poco la geografia, ricordiamo che l’Ungheria confina in gran parte con Paesi membri dell’UE (Romania, Croazia, Slovenia, Austria, Slovacchia) ad esclusione della Serbia e dell’Ucraina, e che dunque la maggioranza dei migranti che giungono nel Paese magiaro hanno probabilmente già attraversato un Paese membro, tranne i rifugiati provenienti dal Kosovo che passano attraverso la Serbia.

Come abbiamo anticipato, il Regolamento di Dublino non è esente da critiche, a patto che queste vengano portate in maniera oculata e basandosi sulla conoscenza dello stesso. Non è un caso che i primi a sottolineare le lacune del regolamento siano stati due organi competenti come l’ECRE (European Council on Refugees and Exiles) e l’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), che hanno messo in evidenza l’assenza di una protezione efficiente ed effettiva per i rifugiati. L’applicazione del regolamento può infatti causare ritardi nella presentazione delle richieste di asilo, e frequentemente coloro che avrebbero diritto allo status di rifugiati decidono di non presentare la domanda per evitare di essere obbligati a restare in un determinato Paese, molto spesso con il rischio di dividere intere famiglie (l’unica eccezione prevista è per i minori che abbiano un genitore in un altro Paese). In altri casi, invece, sono i Paesi che dovrebbero accogliere la richiesta a restare invischiati in ritardi procedurali che possono durare anche anni. Va inoltre sottolineato come alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, siano particolarmente svantaggiati da un regolamento che assegna la responsabilità dei rifugiati soprattutto a quei Paesi che rappresentano i confini dell’Unione Europea con gli altri continenti, anche se nell’anno 2014 sono la Germania e la Svezia quelli che hanno ricevuto il maggior numero di richieste (oltre 41.000 per i tedeschi contro le 21.000 nostrane). Proprio la tanto bistrattata Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, infine, è intervenuta in alcuni casi penalizzando i Paesi che non rispettavano i diritti dei richiedenti asilo.

GIULIO CHINAPPI
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