Il vuoto nel concetto di 'Sinistra'

2 Maggio 2013
Redazione YOUng
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sinistra

Non è detto che il ritorno alle urne sia stato spostato di molto. E allora, posto che già da tempo non consideravano più il PD “di sinistra” (men che meno dopo gli eventi di queste ore), chi o cosa sosterebbero tutti quelli che hanno tenuto in vita, dall’avvento della seconda Repubblica ad oggi, la cosiddetta “sinistra radicale” e rifiutano di convergere nel Movimento 5 Stelle che, anzi, da più parti, identificano come una forza destroide? Rivoluzione Civile è già defunta? O pronta a risuscitare con la nuova sigla di Azione Civile? C’è ancora un futuro per SeL alleatasi con un partito a favore del TAV e incapace, sinora, di sedurre il pubblico giovanile almeno come era nelle intenzioni originarie? E chi si è sentito tradito dall’imminente inciucione tanto da giurare di non votare più PD, verso quale simbolo politico convoglierà le sue speranze? Si è pronti a fondare un nuovo soggetto politico benedetto da Rodotà, come vociferato nelle ultime ore, in cui convergano SeL, Ingroia, pezzi del PD e dei sindacati?

Interrogativi che contribuiscono ad animare il dibattito generale sull’idea e i manifesti programmatici di “sinistra”, riaccesosi pubblicamente ancor prima della crisi all’interno del PD, e cioè con l’exploit del 5 Stelle conseguito grazie – sì, in questo caso – all’adesione massiccia di quella popolazione giovanile etichettata come “post-ideologica”. Tanto che lo stesso segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, due settimane fa ha indetto un conferenza per comprendere i segreti del successo grillino.

Se il Partito Democratico, come ormai ammettono i suoi stessi dirigenti, assomiglia ad un contenitore esageratamente vasto di differenti, se non conflittuali, istanze, interessi, approcci, personalismi, correnti e patronati tanto da non presentare una fisionomia identitaria (di sinistra), si può passare allora ad analizzare gli altri gruppi che rivendicano apertamente l’essere “a sinistra”.

Innanzitutto, l’esperienza fallimentare di Rivoluzione Civile rischia di condannare definitivamente all’anacronismo storico coloro che si professano ancora “comunisti” e che hanno costituito la base elettorale della lista di Antonio Ingroia: dirigenti, burocrati e fedelissimi di partito, militanti storici, movimentisti, “ideologici da guerra fredda” ancora nostalgici dei soviet o dell’ex DDR, inneggianti agli attuali “regimi comunisti” come quello della Nord Corea o, più moderatamente, al modello castrista nonostante la sua diffusione di povertà e degrado nella stessa Cuba. Spinte estreme da cui Ingroia, adesso, sembra volersi smarcare come testifica il sostegno alle primarie romane per Ignazio Marino.

Inoltre, come accade sempre più spesso per le candidature parlamentari, anche il promotore di RivoluzioneAzione Civile potrebbe essere dipinto come un “prodotto televisivo”, tipico della società dello spettacolo in cui viviamo, che la sinistra dovrebbe aborrire, pompato dalla “squadra” formata da Fatto Quotidiano-Santoro-Chiarelettere per i presunti meriti relativi alle indagini sulle connection politico-mafiose sebbene ancora lontane da una risoluzione definitiva.

Tuttavia, per i detrattori di tutti gli esperimenti “apparentemente di rottura” susseguitisi in questi anni, l’equivoco più grave fra quelli che determinano la loro fragilità identitaria risiede, a dispetto delle dichiarazioni programmatiche e delle schermaglie da campagna elettorale, proprio nell’attrazione fatale, o fisiologica, verso i “poteri forti”, intesi come partiti “di sistema” quale è il PD. Sin dall’inizio, Ingroia ha esplicitato, quasi giornalmente, la disponibilità ad un accordo coi democratici sino ad arrivare, addirittura, ad accusarli di non avergli aperto la porta allorchè ha dovuto giustificare la deblace di Rivoluzione Civile.

Considerazioni che, ovviamente, da questo punto di vista, valgono pure per SeL, se non in modo ancor più feroce a fronte dell’ingombrante personalismo di Nichi Vendola e della sua esplicita strategia “centrista”, nel senso di entrare a tutti i costi nelle stanze del potere.

Ci va giù pesante, ad esempio, il professore Marino Badiale uno che, più di tanti altri, ha analizzato tutti gli esperimenti politici “a sinistra” durante l’epopea berlusconiana. Per lui, la cosiddetta “sinistra radicale” non è “nient’altro che un fattore di confusione, di oscuramento della realtà, di ostacolo alla costruzione di una vera opposizione”. “Si tratta, in sostanza, di piccoli frammenti di ceto politico che devono necessariamente allearsi col centrosinistra per avere posti e cariche, il che è tutto ciò a cui si riduce il loro fare politica” sostiene sinteticamente Badiale. Secondo il quale anche Ingroia puntava, quasi inevitabilmente, su una prassi ormai consolidata dalla sinistra radicale, “cioè, appunto, quella di prendere i voti di chi si sente critico nei confronti del sistema per portarli a vantaggio del sistema”. Non a caso, Rivoluzione Civile ha respinto le istanze provenienti dal basso di nuovi movimenti autonomisti come Cambiare Si Può o A.L.B.A., preferendo integrare pezzi di nomenklatura di partito, come quell’Antonio Di Pietro svuotato ormai di ogni credibilità politica a causa della gestione personalistica dell’IdV e dei suoi rimborsi elettorali milionari.

Nell’ottica di decontaminazione del concetto di “sinistra”, è ancora più interessante l’invito di Badiale, curato col collega Massimo Bontempelli, a ragionare da capo sulla costruzione di un movimento anticapitalista, mettendo da parte una volta per tutte le “fuorvianti” simbologie comuniste. “Non credo che nessuno possa oggi rivendicare il filosovietismo e pensare di fondare su questa base un movimento politico anticapitalistico che abbia qualche senso”, argomenta Badiale; ma, soprattutto, se si guarda a ciò che il vecchio PCI ha realmente fatto dal secondo dopoguerra in poi, “appare chiaro che la sua azione è stata quella tipica di un partito riformista e socialdemocratico”, tanto che tutte le conquiste del PCI non possono essere rivendicate sotto l’etichetta di “comunismo”: “il fatto che il PCI abbia fatto una politica riformista e socialdemocratica sotto lo slogan del “comunismo” è chiaramente un limite e un errore, non qualcosa che possa essere ripreso e utilizzato oggi. Il fatto di fare una politica riformista sotto le bandiere del comunismo ha indebolito quella politica, non l’ha rafforzata, perché ha reso fin troppo facile alle forze conservatrici di opporsi alle richieste progressiste indicando nella società sovietica, che nessuno in Italia voleva, lo sbocco logico dell’azione del PCI. Più in generale, quello che il PCI in questo modo ha creato è un massiccio strato di falsa coscienza fra i suoi militanti e, più in generale, fra il popolo di sinistra. E mi sembra difficile che una nuova forza anticapitalistica possa oggi proporsi come obiettivo la falsa coscienza, il “raccontarsi storie”, il non avere una chiara coscienza di ciò che si è e di ciò che si fa” conclude lapidariamente il professor Badiale. Il suo è, prima di tutto, un appello, constatato che gran parte degli appartenenti alle nuove generazioni post-ideologiche paragonano le simbologie comuniste addirittura a quelle nazifasciste. Un collegamento improprio, dato che in Italia il partito comunista ha contribuito alla Liberazione e alla stesura della costituzione, tuttavia comprensibile se ci si limita ad evocare tutti i progetti e i regimi che sotto l’effigie della falce e martello non solo hanno condiviso la vocazione imperialistica del “nemico americano”, ma hanno anche tormentato la propria popolazione con una rigida restrizione dell’autonomia individuale. Sino ad arrivare ad oggi, al dominio ultracapitalista dell’impero cinese pur battente ancora bandiera rossa…

Se per Badiale, poi, il movimentismo extraparlamentare, dal ’68 in poi, si è rivelato del tutto inutile, esprimendosi in “null’altro di più rivoluzionario della proliferazione di circoli culturali “fuori dal mondo” ”, c’è chi, addirittura, lo accusa di aver contribuito in maniera determinante alla mortificazione dell’idealismo di sinistra. Ci riferiamo a colui che, seppur da “sbarbatello” appartenente alla generazione post-guerra fredda, si sta rivelando il paladino contemporaneo della filosofia marxista in difesa dalla contaminazione delle “ideologie di sinistra”: quel Diego Fusaro, classe 1983, che è arrivato a teorizzare come il neocapitalismo e la globalizzazione siano un fenomeno di sinistra, almeno nel senso sessantottesco.

A prescindere da quanto si possa condividere della sua visione, si può star certi che i problemi di “falsa coscienza” non lo riguardino, dimostrandosi, anzi, nettamente più consapevole delle proprie scelte rispetto a tanti coetanei che militano in Rifondazione o nelle altre organizzazioni della sinistra radicale, spesso più per moda giovanile o per retaggio familiare. A tal punto che se qualche “poveretto” ancora attaccato alle simbologie da guerra fredda si mette a leggere i suoi libri rischia (finalmente ?) di precipitare in un grave stato confusionale e in una profonda crisi di identità…

Le tesi di Fusaro appaiono, infatti, paradossali. Per lui, l’equivoco su cui si fondano tutti i progetti fallimentari di sinistra sta nella “logica culturale antiborghese” più che anticapitalista degli esperimenti sessantottini, tanto “da dar luogo al piano inclinato che porta all’odierna condizione paradossale in cui il diritto allo spinello, al sesso libero e al matrimonio omosessuale viene concepito come maggiormente emancipativo rispetto a ogni presa di posizione contro i crimini che il mercato non smette di perpetrare impunemente, contro gli stermini coloniali e contro le guerre che continuano a essere presentate ipocritamente come missioni di pace”. Fusaro arriva, quindi, a sostenere che “il principio dell’odierno capitalismo postborghese è pienamente sessantottesco e, dunque, di sinistra” tanto che oggi “abbiamo personaggi capitalisti e non borghesi (Berlusconi) o antiborghesi ultracapitalisti (Vendola, Luxuria, Bersani, ecc.) vettori principali della dinamica di espansione capitalistica. La loro lotta contro la cultura borghese è la lotta stessa del capitalismo che deve liberarsi dagli ultimi retaggi etici, religiosi e culturali in grado di frenarlo”. D’altronde, Fusaro non è il primo ad aver ipotizzato che proprio il ’68 abbia creato il terreno fertile per il trionfo del materialismo e dell’edonismo.

Molto interessante è la tesi secondo cui il centrosinistra e gli altri partitini emanati dalla sinistra radicale hanno “ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto partito comunista” che alimenta quella “falsa coscienza” di cui accennava Badiale e confonde, in primis, le nuove generazioni.

Per Fusaro, infine, l’ultima sciagura che si abbattuta sul “pensiero di sinistra” è l’antiberlusconismo, ciò che considera “la personalizzazione esasperata della polemica con l’avversario”. Secondo il giovane filosofo, infatti, “la personalizzazione dei problemi si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni, ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali”. “Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti del cosmo a morfologia capitalistica, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo” enuclea Fusaro. “La politica ridotta al tragicomico teatro identitario dell’opposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani ha permesso di far passare inosservato lo scolpirsi del nuovo profilo di una sinistra che – nel nome della questione morale e nell’oblio di quella sociale – ha abdicato rispetto alla propria opposizione agli orrori che il capitalismo non ha cessato di generare. È in questo senso che l’antiberlusconismo rivela la sua natura anche più indecente, se mai è possibile, dello stesso berlusconismo”.

Fusaro è convinto, quindi, che la stessa “sinistra è il problema e, insieme, si pensa come la soluzione. Il primo passo da compiere per riprendere il perseguimento del programma marxiano dell’emancipazione di tutti dal capitalistico regno animale dello spirito consiste, pertanto, nell’abbandono incondizionato della sinistra e, anzi, della stessa dicotomia destra-sinistra. Tutto il resto è chiacchiera d’intrattenimento o, avrebbe detto Marx, “ideologia” ”.

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Bibliografia di riferimento

Minima Mercatalia

Filosofia e capitalismo

di Diego Fusaro

Bompiani (2012)

Bentornato Marx!

Rinascita di un pensiero rivoluzionario

di Diego Fusaro

Bompiani (2009)

La Sinistra Rivelata

Il buon elettore di Sinistra nell’epoca del capitalismo assoluto

di M.Badiale e M.Bontempelli

Massari (2007)

La Cosiddetta Sinistra

di Giovanni Armilotta

Jouvence (2011)

La Sinistra è di Destra di Piero Sansonetti
Bur Rizzoli (2013)

Per farla finita con l’Idea di Sinistra

di Augusto Illuminati

DeriveApprodi (2009)

Ci fu una Volta la Sinistra

Ovvero il silenzio dei post-comunisti

di Piergiorgio Giacchè

Edizioni dell’Asino (2013)

La fabbrica di Nichi

Comunità e politica nella postdemocrazia

di Onofrio Romano

Laterza (2011)

Il Vicolo Cieco dell’Economia

Sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo

di Jean-Claude Michea

Eleuthera (2012)

Sinistra Destra

L’identità smarrita

di Marco Revelli

Laterza (2007)

L’Industria dei Partiti

di Ernesto Rossi

Chiarelettere (2012)

Il Culo e lo Stivale
I peggiori anni della nostra vita
di Oliviero Beha
Chiarelettere (2012)

Che c’entra Marx con Pol Pot?

Il comunismo tra Oriente e Occidente

di Aurelio Lepre

Laterza (2001)

La Società dello Spettacolo
di Guy Debord
Dalai (2008)

Egemonia Sottoculturale
L’Italia da Gramsci al gossip
di Massimiliano Panarari
Einaudi (2010)

Berlusconi o il ’68 Realizzato
di Mario Perniola
Mimesis (2011)

L’Idea di Comunismo

a cura di C. Douzinas e S. Zizek

DeriveApprodi (2011)

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