Marina Catucci racconta Besame Mucho: viaggio nella mente degli abuser
L’abuso non è un meccanismo irreversibile ma un disordine mentale che può essere riordinato, non un cancro letale che non lascia scampo. Queste le basi da cui parte il progetto Besame Mucho, di cui vi ho parlato in questo articolo .
YOU-ng ha raggiunto e intervistato uno dei fondatori, la giornalista e videoreporter Marina Catucci
Dal tuo background di documentarista e giornalista, come sei arrivata al tema di questo progetto?
Ho studiato semiologia del cinema, volevo fare la critica, poi una volta, avevo 26 anni, il mio amico Bruno Pompa che lavorava e lavora al Cassero, l’Arci gay di Bologna, mi ha chiesto di fare dei video per una serata di sostegno e per tre giorni non ho quasi dormito per girare e montare questi piccoli video, con mezzi di fortuna ed ho scoperto che quello che volevo fare era la documentarista. Amo la fiction ma il documentario è quello che ho nelle corde. Giornalista lo sono diventata in America, proponendomi come reporter ai media italiani, per guadagnare in pratica. E il giornalismo è la cosa più simile al documentario. Un fratello più asciutto e spiccio, meno poetico ma hanno lo stesso Dna.
Un documentario sull’identità maschile l’ho in mente da almeno 15 anni, Besame arriva da lì, dal vedere una grande confusione ed un grande malessere maschili. Questo malessere ovviamente si riversa nei rapporti di coppia sulle donne con cui questi si innestano.
Besame Mucho è stato scelto quando ho capito, anche attraverso esperienze personali, che la molla di tutto questo è un bulimico, atroce, malato inappagabile bisogno d’amore, di accettazione, di rassicurazione da parte dell’uomo diventato abuser. Lui ti chiede di amarlo sopra te stessa, sopra ogni altra cosa e non basta mai, ed è rabbioso perché non gli dai questo amore impossibile da dare.
L’elaborazione di Besame Mucho è stata fatta “con un oceano di mezzo”, come hai conosciuto il resto del team?
Twitter. Io e Roberto Vincitore ci siamo conosciuti per via di Twitter, così come io e Claudia Vago che originariamente era nella squadra e da cui è uscita per via dei troppi impegni personali e lavorativi, ma che continua a sostenerci dall’esterno, oltre che ad essere ormai una mia cara amica. Elena Codeluppi, invece per caso, tramite amici comuni, mentre era in vacanza a NYC, amore a prima vista e quando e ho chieto dei consigli lei ha preso in mano la parte social e di comunicazione con una competenza, professionalità e intelligenza che non lasciavano niente altro da dire.
Il mio progetto non sarebbe lo stesso senza Roberto, una delle mie migliori intuizioni, e il suo arricchimento dialettico e di senso che altrimenti non ci sarebbe stato. Si sta facendo un lavoro su un problema di genere e se i due che ci lavorano sono di genere diverso non può che essere un bene, soprattutto se l’altro entra in punta di piedi, non si sente schiacciato dall’argomento e ciò permette lo scambio di idee, anche in una forma che può sembrare terapeutica.
Come uomo mi racconta di sentirsi confuso poiché, riconoscendo il 90% degli uomini nelle cose che dico gli riesce difficile capire dove risieda il labile confine tra la sana gelosia nei confronti del proprio amato bene e il bisogno malato di controllarlo. Nell’addentrarsi in questi argomenti si mette a rischio l’ autopercezione e si realizza come tutti gli uomini siano a rischio di diventare abuser: ciò richiede un enorme lavoro su se stessi, di autoanalisi, di attenzione. E’ come avere un informatore proveniente dall’universo maschile, un informatore attento e sensibile. Ecco, se non ci fosse questo apporto dall’interno, che porta Roberto, io sono sicura che Besame Mucho sarebbe un documentario peggiore.
La scelta della piattaforma di Kickstarter per il finanziamento come scelta di indipendenza sulle modalità con le quali trattare il tema. Realizzare un documentario sugli abusi partendo dal punto di vista di chi abusa ha incontrato “resistenze” nei canali classici di produzione?
Tantissime. La cosa strana era che tutti i produttori a cui mi sono rivolta non avevano problemi a produrre Besame, consideravano l’argomento abbastanza di moda per toccarlo, ma avevano paura di fare un prodotto con un taglio non convenzionale, temendo di uscire dallo schema di moda, appunto. Mi chiedevano di spostare l’attenzione sulla vittima, di fatto quello sarebbe stato un altro documentario, non il mio.
Besame Mucho intende insinuarsi nel ciclo dell’abuso, indagare le ragioni del violento, individuare il perchè e il quando del malessere maschile che sfocia nella violenza e interromperlo. Obiettivo ambizioso, soprattutto perché vuole essere al contempo anche interculturale, trasversale e intergenerazionale. Qual è l’iter che intendete seguire ?
Voglio che Besame Mucho abbia un percorso catartico, che trasmetta l’idea che da questa cosa orrenda se ne può uscire, come individui e come collettività, mostrando due modelli, uno personale ed uno sociale.
La parte personale sarà affidata ai racconti di uomini, che definirei ex abuser, uomini che hanno capito di avere un problema e l’hanno affrontato. Ci racconteranno la loro vita, il loro malessere, quello che facevano, come si sentivano e mostreranno che questo disordine mentale può essere riordinato. E’ doloroso e faticoso ma può cambiare.
Il percorso collettivo è mostrare il modello americano per affrontare il problema della violenza domestica o almeno quello dello Stato di NY che può non essere un modello perfetto ma molto buono. La rete di associazioni, la preparazione del corpo della Nypd per le domestic violence, la interconnessione tra i vari centri anti abuso, le associazioni di legali pro bono, i terapeuti… Se entri in un centro come FEGS, che si occupa anche di violenza domestica, praticamente vieni accolta e protetta dall’inizio. [ Una terapia di sostegno mirata, che aiuti a superare le varie fasi del processo di liberazione le prime, poi, sono molto delicate in termini di incolumità fisica e qui è la legge a fare la parte principale. Sporgendo denuncia si trova un corpo di polizia preparato ad affrontare la delicatezza di questo tipo di situazione, si fa un incontro con un giudice e viene subito dato un ordine restrittivo al potenziale abuser. Questo non gli macchia la fedina penale o altro ma non si può avvicinare alla vittima fino alla data dell’udienza dove si valuta se ci sono gli estremi per un vero caso di abuso e allora quell’ordine viene protratto per qualche anno oppure ritirato.Un sistema che tutela la donna ma non criminalizza l’uomo sempre che non infranga l’ordine restrittivo e in quel caso passerebbe una serie di guai legali e giuridici tremendi.]
La violenza ha diversi volti, mostrerete anche il suo volto invisibile fatto di violenze psicologiche e verbali reiterate?
La violenza fisica è un punto di arrivo al quale a volte non si arriva mai. E’ difficile mostrare questo processo di abuso psicologico, morale, economico, ma è la parte più devastante, qella in cui si corrode l’autostima, la personalità`, l’individuo. E’ terribile e viene sminuito da chi la compie “E’ solo una tirata di capelli, `e solo uno spintone. anche tu strilli contro di me, sei tu che lo vuoi”… E a queste cose lei crede, non capisce più se è vero il sentimento di sopraffazione ed ingiustizia che sente o se è vero ciò che le dice lui, ciòè che non è niente…
La violenza è spesso etichettata come violenza di genere dimenticando l’assunto che la violenza è un costrutto ampio e complesso che non prevede distinzioni in ordine al sesso. L’abuser, soggetto del vostro documentario è di sesso maschile, avete in mente di fare un sequel sul punto di vista della donna abuser?
Ci domandano spesso della donna abuser. Sono due cose completamente diverse. Iniziamo col dire che la sproporzione è schiacciante, uno è un fenomeno sociale, interculturale, trasversale e l’altro, quello del donna abuser, sono più eventi e situazioni simili che sommati fanno numero. Un po’ come dire che siccome stiamo facendo un documentario sull’abuso poi ci occuperemo di certo anche di mobbing.